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«VELE, ULTIMA FERMATA»
Nei quartieri dove si muore per una parola di troppo
I reportages di Montesano e D’Avanzo

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NAPOLI. L’acqua che viene giù a secchi e forma fiumi di fango che invadono i marciapiedi avrà avuto tutto il tempo di lavare via il sangue, il dolore, i morti. O forse quando sono troppi è difficile cancellarli? Entriamo a Scampia sotto una pioggia che si rovescia furiosa sul parabrezza, in un grigiore da città fantasma, una città abbandonata da tutti. Giriamo per queste strade che si avvitano intorno ai palazzoni come se ci fossimo persi, e dopo un paio di curve ci troviamo davanti a delle macerie. «È una discarica, Antonio?» dico al fotografo che è con me, e lui: «No, è il campo nomadi». A pochi passi dal quartiere, in una sorta di terra di nessuno, sotto i piloni dell’asse mediano si ammucchiano baracche sghembe, pareti fatte di cartone e di teli di plastica che il vento fa sbattere, tettoie sfatte, un bambino nell’acqua fino al ginocchio che cerca chi sa cosa. È come se una discarica si fosse, per un momento, travestita da baraccopoli: basterà chiudere gli occhi, e sparirà tutto. Ma non sparisce niente, e torniamo indietro. Doveva essere un quartiere blindato, Scampia: ma per un’intera mattinata vedremo una sola macchina dei carabinieri che fa controlli di routine, con dei ragazzi giovanissimi che sembrano usciti da un corso o da una scuola cinque minuti fa. Continuiamo a svoltare per queste vie concepite solo per le macchine, non per essere attraversate a piedi da gente che fa la spesa o va a spasso con i bambini. E dove si fa la spesa in questo dormitorio?
Andiamo, giriamo, guardiamo: niente negozi, niente bar, un’edicola cadente in un raggio di chilometri. In quale incubo notturno è stato concepito un quartiere senza campi di calcio, parchi praticabili, servizi, botteghe, locali? Solo queste strade larghissime sulle quali le automobili si avventano come per fuggire, e intorno formicai di cemento con i quadratini che si fingono finestre, le sbarre fino ai terzi piani e le paraboliche per le partite di calcio che chiazzano le pareti come funghi, una muffa metallica che sembra il solo segno di vita su un pianeta deserto. «Ma dove andiamo? Ci siamo persi?» chiedo al fotografo. «Qui ti perdi sempre» replica lui. Perdi il senso dell’orientamento perché tutto si somiglia, i cartelli stradali sono indecifrabili, divelti, ricoperti di scritte. Più o meno al centro di Scampia c’è un’enorme recinzione circolare di lamiere, e in pochi minuti che stiamo a guardare arrivano più di dieci ragazzi: ne escono dopo un po’ sbandando sui motorini, o parlottanti e veloci a piedi. «Là dentro si vanno a fare» dice Antonio. «Di che?». «Eh, di quello che trovano…». In giro ci sono soprattutto questi ragazzi, a piccoli gruppi, nell’androne di un condominio coi vetri sfondati, dietro un muro: alcuni con scarpe di ginnastica scalcagnate e facce spente; altri con bei giubbotti di pelle e occhi duri. Ci diranno qualcosa? Non hanno niente da dire, ci guardano come se fossimo dei mentecatti. Vogliamo sapere che ne pensano di quello che succede? «E che ne saccio… Se so’ sparate… È normale, compa’…». Il massimo che viene fuori è questo borbottare sordo, più spesso uno sguardo vacuo. Ha ricominciato a piovere, all’improvviso. L’acqua frusta il cemento corroso, le scale oscene, il metallo arrugginito: quanto resisterà chi vive nei sottoscala di queste facciate inverdite, sudice, nere? Le vele sopravvissute sembrano piramidi messicane pronte per un misterioso sacrificio, luoghi dediti a una incomprensibile attività. Per sfuggire a queste rotonde intorno a cui girano veloci macchine e camioncini, a questa gigantesca rassegnazione che sembra stesa su tutto e tutti, decidiamo di andare alla Pertini: una scuola media. «Sai dov’è?». «No, ma chiediamo, è semplice…». Semplice? Una ragazza biondo tinto sotto una pensilina biascica qualcosa, ma non si capisce: e poi a quest’ora non dovrebbe essere a scuola? «A destra o a sinistra?». «Di là…». Per lei è tutto di là o di qua, e ci rendiamo conto che confonde la destra con la sinistra. Ma capita di nuovo, con un uomo di mezza età dall’aria sconfitta: «Di là…». Un altro invece ci offre la scuola «qua vicino», sorpreso che non vada bene: ma non sono tutte uguali? Alla media Pertini finalmente l’atmosfera è diversa, si respira aria di battaglia ancora in corso, non di disfatta. Gruppetti di ragazze «difficili», quelle che non riescono a stare a lungo in aula, girano per i corridoi, fanno un po’ di casino, ma le insegnanti sanno come prenderle, c’è tolleranza ma con un minimo di regole. «Siete giornalista?» chiede una, e al nostro cenno vago, sbotta alle altre: «So’ giurnaliste!» e in coro: «La foto!… A me!… ’Ncoppa ’o giurnale!…» L’insegnante ci spiega che la scuola è aperta di pomeriggio, ma che le attività in assoluto preferite sono la danza e il calcetto, e aggiunge: «È così che vedono il loro futuro…» mentre io ripenso al fiorire di paraboliche, e alle possibilità statistiche che hanno di cavarsela gli aspiranti ballerini di Scampia: quante sono rispetto a quelle degli altri? L’insegnante si porta dietro un altro ragazzo «difficile». Sa tutto dei morti ammazzati, comprese le statistiche, e legge il giornale. Parla con naturalezza, ma con una smorfia, di uno che stava in classe col fratello e ora è finito a Nisida. Ci racconta che nel bar dello zio hanno detto che a Scampia arriveranno gli americani che stanno in Iraq, con i carri armati e gli elicotteri. «E tu che dici? Se succedesse?». «È buono, è buono! Accussì arrestano a tutte quante, e stamme nu poco quiete…». Lo guardo e dico: «Veramente?» e lui, fissandomi malinconico, scandisce lento: «Ccà a guerra adda ancora accumincià…». Ma sì, penso uscendo, forse ha ragione lui, e qua la guerra vera deve ancora cominciare: ma intanto quella che mi sento addosso è la sensazione di una battaglia civile persa, impantanata nel fango, soffocata da promesse mancate e meschine chiacchiere politiche. Mi rivedo davanti agli occhi un cartellone fatto dagli alunni che si intitola ”La mia strada”: «Camminando per questa strada vediamo spesso visi di persone che si credono chi sa chi, ma sono ”buffoni” che non contano niente… Incontriamo ragazzi che guardano noi ragazze ”fisso fisso”, uno sguardo insistente che ci fa mettere vergogna… Quello che non vorremmo fare è l’incontro con gli spacciatori… Quello che non vorremmo avere è la paura… Quello che non vorremmo sentire è la solitudine…». Queste ragazzine non si sono ancora arrese, e nemmeno i loro insegnanti: ma qualcun altro lo ha fatto. Nelle famiglie dei casermoni, nei palazzi dove ci si riunisce per decidere la sorte della gente, nelle stanze dove si entra solo annunciati, qualcuno si è arreso, e da tempo. Torniamo in macchina, ancora in giro, come se fossimo ipnotizzati da qualcosa che è davanti agli occhi di tutti ma è troppo amaro da accettare. Non riesco a togliermi dalla testa un quaderno che ho visto nella scuola, tutto scritto in dialetto e con incollate delle foto, una specie di autoanalisi fatta da un bambino di dodici anni, dove a un certo punto c’era scritto: «Nu scugnizzo che sta pa strada sape chi è overamente nu boss, e a nu dio ’e scemo nuie ce damme rispettabilità?». Portare un ragazzo di strada a pensare che un boss «non è nessuno», mi sembra un miracolo. Ho chiesto all’insegnante che facesse ora quel ragazzo, mi ha detto amara: «Sta in carcere». Fuori piove di nuovo, piove come se l’acqua volesse cancellare Scampia e i morti, lavare tutto, sprofondare tutto. Sulle lamiere divelte, sui muri, sui pali della luce, dovunque c’è spazio, squilla un manifesto giallo che l’acqua non riesce a scolorire e dove si legge: «Svuota tutto per rinnovo locali». È una vendita di mobili, ma sembra un de profundis, un avvertimento di svendita di civiltà, di saldo collettivo. È solo una sensazione generata dalla tristezza di questi passanti curvi, dei loro silenzi, della loro rassegnata solitudine? Più avanti c’è un cartello con scritto «Stazione Carabinieri di Napoli quartiere 167», ma è piegato al suolo, come se fosse inginocchiato o abbandonato. Usciamo da Scampia nel grigio livido del cielo, passiamo di fianco al carcere circondariale, e nessuno ha più voglia di parlare.



GIUSEPPE MONTESANO – IL MATTINO 11 NOVEMBRE 2004

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QUEI RAGAZZI DI NAPOLI PERDUTI PER LA ROBA



Una generazione bruciata: in migliaia fanno uso di droga. E magari diventano assassini per procurarsela. Nei quartieri dove si muore per una parola di troppo


di
GIUSEPPE D’AVANZO


Pa’ rrobb/ pa’ robb s’arrobb/ pa’ robb se fann e scipp/ pa’ robb se mettono e mane/ dint’a borsa ‘e’ na mamma per vere’ e apparà ‘na cosa e’ spicc/ pà robb/ se stà dint’ e impicc’…
(“Per la roba/ per la roba si ruba/ per la roba si fanno gli scippi/per la roba si infilano le mani nella borsa di una mamma per cercare di mettere insieme qualche spicciolo/ per la roba si finisce nei guai”)


NAPOLI. Della rrobb, di questa “merda” nessuno parla e vuole parlare. Si fa finta di niente. Si tira diritto. La si nasconde “come se fosse una psoriasi sotto la camicia”. Meglio la camorra, gli omicidi di camorra. Meglio quelli – i morti ammazzati schiacciati nel portabagagli dell’auto, i capuzzielli emergenti, i capetti declinanti, i quartieri occupati, i blitz, la paura, gli agenti segreti e le videocamere, il ministro che arriva in città – per dare un’immagine di normalità. Sì, normalità. Di che cosa volete scandalizzarvi? Di un centinaio di piccoli gangster ammazzati in undici mesi in una città che ha contato anche 258 morti in un anno (1991)?

Napoli afflitta dal crimine organizzato, dalla guerra di bande è una Napoli che non sorprende, che non avvilisce o inquieta. E’ una città “normale” agli occhi del Paese, come è normale, abitudine addirittura il crimine nella sua storia disgraziatissima. Meno normale è la Napoli cinica, disperata, senza futuro che, a occhi chiusi, sta bruciando una dopo l’altra le sue giovani generazioni – i figli, da queste parti, non erano piezz’ ‘e core? – e le sacrifica e le distrugge manco fosse una favela brasiliana.

Ma non è una favela, è un’area metropolitana di tre milioni di abitanti che ogni giorno vede in interi quartieri, Scampia, Secondigliano, Melito, Mugnano, Piscinola, San Giovanni a Teduccio, i vicoli dei Quartieri Spagnoli, di Montecalvario nel centro storico, migliaia di ragazzi (i più giovani hanno appena tredici anni) fare uso di droga come in altre città i loro coetanei bevono Coca Cola e mangiano hamburger.

Sono decine di migliaia di ragazzi che abitualmente – più volte la settimana, tutti i giorni o soltanto nei week end per iniziare – fanno uso di droghe. Il 58,4 di loro, tra i 15 e i 24 anni, non ha lavoro e non ne avrà mai uno regolare. Che se lo scordassero. Vivono di televisione, di playstation e noia. Vivono con l’ossessione dei soldi. Soldi. Soldi. Soldi. Non chiedono altro. Non vogliono altro. I punti Snai per le scommesse sono affollate di giovani come in nessuna altra città italiana. La bolletta, il cedolino della scommessa, è l’unica speranza che si concedono nella vita. La scommessa azzeccata può cambiare la loro vita. Ci credono per qualche ora. Lo credono eccitati come se davvero il miracolo dovesse accadere. Il tempo di sapere che hanno perduto ancora, come sempre. Allora non resta che “l’altra cosa”. Quella non costa cara e non delude.

Quindici euro, soltanto quindici euro per una pallina di cocaina da tre decimi (ce ne sono da sette decimi e da un grammo) tagliata con il mannitolo (un diuretico) e procaina (anestico) più anfetamine e psicoformarci variamente e sciaguratamente miscelate.

Costa da quindici a venticinque euro ‘a buttiglietta. Cocaina base non cloridata, bicarbonato di sodio, acidi (soprattutto Lsd). Si fa così. Si svuota per un terzo un bottiglietta di acqua minerale. La si “tappa” con carta stagnola. La carta stagnola ha al centro un piccolo foro. Si sistema qui la pallina di droga. Si accende. Si fuma. “Vai subito fuori di testa”.

Il Corbet (o Korbet) costa da dieci a venti euro. E’ lo scarto della raffinazione dell’eroina tagliato con sostanze tossiche. Può essere polvere bianca o una pallina colore marrone. La si scalda sulla carta stagnola del pacchetto di sigarette. Si inalano i fumi. Cobret, Cobra, “per via che l’effetto è un morso di serpente”.

“L’assunzione di questa roba – spiega lo scrittore Maurizio Braucci (Mare guasto; Una barca di uomini perfetti) – la sua qualità pessima, la tenera età di chi l’assume provoca attacchi di isteria, livelli di delirio imprevedibili, inspiegabili e danni psicopatologici sui sistemi neuro-endocrini di giovani ancora in via di sviluppo”.

Accadono cose da pazzi a Napoli. Puoi morire per niente, per un nulla. Per un’ombra che passa dinanzi agli occhi di un adolescente “strafatto”, avvelenato. Può ammazzarti perché ha pensato che tu guardassi la sua ragazza. Può accoltellarti perché nel traffico hai sfiorato il suo scooter. Può spararti perché semplicemente la tua faccia non gli piace. Perché hai detto la parola sbagliata. Perché non hai detto una parola quando dovevi dirla. Perché gli va di farlo. Perché vuole liberarsi di quel risentimento e rancore che gli brucia nel petto. “Bande di quartiere spesso motorizzate – racconta Braucci – si abbandonano ad aggressioni gratuite. Non sempre vogliono rapinarti. Magari ti schiaffeggiano soltanto passandoti accanto o ti lanciano addosso qualcosa o peggio ti circondano e ti picchiano. Qualche volta ti accoltellano”.

Sono così le notti di Napoli. Scooter impazziti. Ragazzi in preda a delirio di onnipotenza. O alla disperata ricerca di denaro. Quel fumo tossico che li ha esaltati si spegne presto e ne vogliono ancora. Hanno allora bisogno di soldi. Mica di tanto. Dieci euro. Quindici. Possono rapinare anche un bambino e frugargli le tasche per un foglietto da cinque euro. O possono schiacciare in un angolo una donna incinta e strapparle il telefono cellulare. E’ sufficiente un cellulare in una piazza di spaccio per farsi un’altra fumata, un’altra bottiglietta, un altro Corbet. “Portare Rolex a San Gennaro” è scritto su muro a Porta San Gennaro. Vuol dire che lo spacciatore c’è ed è pronto a ricettare quel che hai rubato per darti ancora la roba.

Non dovete pensare che la disperazione sia di alcuni, dei più sfortunati o dei più fragili. A Napoli, in quest’abisso senza luce, è l’intera generazione, dai quindici ai trent’anni, dei quartieri disperati del centro storico e della periferia. La sua lenta e violenta estinzione si consuma in silenzio in una città che se ne vergogna, che si protegge, che si muove lungo percorsi protetti e, se vive in vie a rischio o in quartieri pericolosi, tira avanti i suoi giorni come in una prigione abitata da matti e da assassini.

“Io sono nato da queste parti, a Piscinola, là dietro quel muro di palazzoni – dice, mentre giriamo in auto nel niente di Scampia, Peppe Lanzetta autore di Figli di un Bronx minore, di Un Messico napoletano, di Tropico di Napoli – Nessuno è mai stato ricco da queste parti, alla vita siamo sempre stati aggrappati con le unghie e con i morsi. La domenica mattina però, quando quella vita di merda ti lasciava tirare il fiato per qualche ora, potevi vedere un padre felice giocare con il figlio che sorrideva. Oggi vedo in certe domeniche questi giovani zombie che vanno avanti e indietro, ingrigiti e brutti. Non hanno mai avuto un’occasione, una mamma che ha risposto, un padre che si è fatto trovare, un maestro che è stato ad ascoltare, un maledetto che gli ha offerto un lavoro. Attendono soltanto che si faccia l’ora. L’ora per andare a prendere la roba. Li vedi in fila sull’asse mediano. In fila. Uno dietro l’altro. Comprano l’eroina e se la fanno lì sul ciglio della strada. Uno dietro l’altro. Uno dopo l’altro. Tra di loro c’è sempre il povero cristo che non ha una lira per comprare e si guadagna il buco della giornata trovando le vene difficili in braccia già morte. Non sono in grado di dirlo in un altro modo: quella disperazione non ha più rimedio, non ha lenimento. Come se fosse una malattia allo stato terminale. Si mangia le loro vite e le case e le strade e i loro amici. Chi può scappa, fugge dalla malattia. Va a lavorare a Reggio Emilia, a Vignola vicino a Modena – lì il lavoro c’è – per salvarsi. Ma quanti si salvano? Sono sempre un parte infinitesima di chi resta qui a morire fottuto dalla cocaina da cucinare, dalla televisione, dalla camorra che se li prende prima della morte per fargli fare un giro di giostra e poi scaricarli con un buco in testa in una discarica. Non è che l’altra città, l’altra Napoli li tratti meglio. Vuoi un esempio? L’assessorato che si occupa delle periferie ha anche la responsabilità dei cimiteri. Assessorato ai cimiteri e alle periferie. Un programma. I morti di ieri. I morti di domani”.

Scampia è un niente stasera, è un vuoto. Due volanti della polizia all’inizio del largo viale che conduce alle Vele non hanno anima viva da fermare e controllare. Non passa un’auto. Non ci sono i giovani e occasionali “tossici” che gli spacciatori della camorra tengono in fila a suon di mazze ferrate. Non c’è un passante. Anzi ce n’è uno. E’ una vecchina. Due bambini – avranno dieci anni – si affacciano da un muro e le tirano delle pietre e ridono. Si nascondono. La vecchina affretta il passo e quelli appaiono sul muro più avanti e le tirano ancora addosso delle pietre. Non c’è nessuno che possa aiutarla. Nessuno vorrà aiutarla. Nessuno potrà aiutarla.

“A Napoli era d’abitudine – spiega Marco Rossi Doria, “maestro di strada” – “togliere l’occasione” come si diceva “per evitare le tarantelle”, trovare il modo per sciogliere i conflitti per non provocarne di più gravi e dolorosi. A volte era sufficiente uno schiaffo o l’offerta di un caffè per “togliere l’occasione”. Era un modo della comunità di difendere se stessa e restare unita. Oggi nessuno azzarda un gesto di pacificazione. Qui tutti sanno che la coca “cucinata”, il Corbet possono trasformare chiunque in un assassino e il più banale degli screzi o dei dissidi nella ragione per una coltellata o una pistolettata”.

La vecchina è riuscita ad allontanarsi, finalmente. I due bambini ora si lanciano le pietre tra di loro.



LA REPUBBLICA 11 NOVEMBRE 2004

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