VILLARICCA. Stasera non si spara. A Napoli, a Roma e anche a Milano, Bologna, Pisa, Perugia, Cagliari, Palermo, Catania. Da Nord a Sud la mezzanotte arriverà in silenzio. Per rispetto verso chi è morto e per risparmiare denaro da inviare a chi è sopravvissuto. Di seguito i commenti delle principali testate italiane.
Sinceri auguri di buon 2005 a tutti gli utenti di InterNapoli.
Stop ai fuochi: la scelta giusta
NAPOLI. «Plebiscito, la festa e la solidarietà», è il titolo con cui il Mattino due giorni fa dava conto di una condizione oggettiva della città: da una parte i preparativi per i festeggiamenti di San Silvestro, dall’altra il pudore, quasi l’imbarazzo, di assecondare il rito, mentre sempre più si definiva l’enormità dell’apocalisse nel Sud-Est asiatico. «Capodanno di solidarietà» era il titolo di ieri, con il sindaco che lanciava l’appello a moderare il tono dei festeggiamenti e la proposta di una raccolta di fondi da destinare alle popolazioni colpite. Di ieri la decisione, giusta, di rinunciare alla magia dei fuochi sul mare che da anni ormai sono l’apice suggestivo della festa che si celebra in città. Bene, quei fuochi d’artificio non ci mancheranno. Anzi, ci conforterà l’idea che questo piccolo sacrificio avrà un senso non solo pratico (con la devoluzione dei fondi alle iniziative di soccorso). Ma ne avrà anche uno profondamente morale: la capacità di esprimere ancora solidarietà vera, partecipazione concreta, slancio autentico dei sentimenti. È la prova che Napoli, travagliata da problemi e violenze, assediata da clan, disoccupazione e incertezza del futuro, non perde la sua cifra più nobile, quella della civiltà – privata e collettiva – che non si rassegna e anzi si propone e combatte. Quella che si è identificata nell’idea del manifesto per respingere l’assalto del crimine organizzato e la deriva dell’indifferenza. Quella che oggi, in mille rivoli, esprime un unico senso di cordoglio, di sgomento, di umanesimo collaborativo. Questa città, questa popolazione, non hanno bisogno dei fuochi d’artificio. Hanno dentro un fuoco vero. Buono per aiutare il prossimo. E anche se stesse.
CARLO NICOTERA – IL MATTINO – Napoli
Capodanno senza botti: un silenzio per condividere
ROMA. Ci sono momenti in cui il silenzio è una necessità più che un dovere. Momenti in cui non si può chiudere il mondo dietro la porta di casa, lui là fuori, noi qui dentro a festeggiare. Perché questo non è un Capodanno come gli altri. Il mondo, fuori, ci è entrato in casa senza bussare: è così che fa, quando la gente muore. Il mondo sfonda la porta, ci mette davanti agli occhi le tremende fotografie dei giornali, le strazianti immagini della televisione. Non è possibile restare indifferenti a quel mondo che bussa e muore, magari con una bottiglia di spumante in mano e un petardo nell’altra.
Non si tratta di retorica, né di astratta carità mentale. La necessità del silenzio, come momento di riflessione sulla nostra storia e sul nostro destino di uomini – che in un attimo può trasformarsi nel destino di tutti e viceversa (il destino è capriccioso e non si cura dell’indifferenza) – riguarda chiunque abbia occhi e cuore.
E allora pensiamo che stavolta sia giusto non fare rumore, non festeggiare il nuovo anno con i botti e i fuochi: sarebbe come urlare in presenza di chi soffre. Condividere un dolore non vuol dire diventare tristi, ma rispettare quel dolore e chi lo sta vivendo.
Anche se si trova dall’altra parte del mondo: e poi, la tragedia del Sudest asiatico ci ha spiegato che il mondo è diventato proprio piccolo, e che lo si percorre in un attimo. Può accadere di essere turisti in vacanza esotica, e in un istante trasformarsi in vittime o testimoni di un cataclisma.
Dunque, il silenzio di Capodanno è anche un modo per riflettere su di noi, non solo per essere un po’ più vicini a “loro”, ai lontani, agli sventurati.
Una festa senza fuochi (che, tra parentesi, ogni anno mozzano mani e oscurano occhi, di bambini e ragazzi soprattutto) è un segno di profonda umanità, di semplice ma vissuta partecipazione. Aspettare il secondo che fa scoccare il nuovo anno, e pensare che chi sta male non è solo: proviamoci, stavolta. Sarà una maniera, anche, per augurarci di non essere soli quando potrebbe toccare a noi star male.
Si parla tanto di globalizzazione e di confini più vicini, in questa nostra inquieta modernità, e così viviamo nel mondo che aspetta il nuovo anno.
Proviamo a farlo nel silenzio e nel rispetto del dolore, così anche il nostro pensiero potrà essere un po’ più globale, se riuscirà a occuparsi dell’uomo.
Cioè gli altri, cioè noi.
MAURIZIO CROSETTI – LA REPUBBLICA- Roma
Oggi il silenzio a mezzanotte
MILANO. Il silenzio sarà stasera più forte di qualsiasi botto. Si sta diffondendo nel Paese un sentimento consapevole del lutto altrui, così grande da diventare il nostro. Il calendario e l’abitudine non possono imporre una festa che contrasta con l’enormità del disastro, del quale la gente lontana dallo tsunami prende giorno dopo giorno reale e turbata conoscenza. Via via la tragedia esce dall’acquario elettronico delle immagini televisive ed entra di prepotenza nelle coscienze.
Le dimensioni si impongono con la loro schiacciante gravità. In milioni di famiglie padri e madri da due o tre giorni ricordano ai figli che precocemente hanno ricevuto in dono il telefonino: «Hai mandato l’sms?». E un altro euro parte, destinazione solidarietà.
Fra i giovani corre spontanea la domanda, incredula: «Perché proprio a loro, perché a quelle terre già povere, a quei bambini cingalesi già gracili, perché tanto dolore per i giusti?», come Giobbe chiedeva al Signore. Sfondare nello spazio breve del primo consuntivo 30 miliardi di vecchie lire con le minute donazioni a distanza è scoprire che Sri Lanka, Indonesia, Thailandia possono, a decine di migliaia di chilometri, essere vicine a cuori generosi come l’Irpinia di passate sottoscrizioni.
Ora c’è voglia di lasciare da parte il chiasso e l’eccesso della fine dell’anno. Il rituale dei botti e dei festini, già per suo conto stanco, si ritrae quasi ovunque per pudore.
Non c’è nulla di lieto a cui brindare, quando in zone del pianeta generazioni di bambini sono sterminate dalla catastrofe. Questa volta la mondializzazione globalizza il senso della misura e determina la cognizione del dolore. Nella mattina di Santo Stefano il vecchio Papa, informato come il più giovane e vigile dei cronisti, si affacciò alla sua finestra di Piazza San Pietro per invitare le nazioni a soccorrere le vittime del biblico disastro: l’appello raggiunse popolazioni televisive insonnolite dai festeggiamenti natalizi e spesso non ancora al corrente.
Oggi tutti sappiamo e tutti, almeno per un’ora, quella del transito fra un anno e l’altro, sentiamo il desiderio di spengere le luci in ricordo di centomila, forse duecentomila mila uomini che il mare ha ucciso.
Non c’è questa volta neppure l’ira politica a farci compagnia, questa tragedia, a differenza delle altre nella storia, ultimo il delitto delle due Torri di Manhattan, è un genocidio senza assassini, senza ideologie, senza guerre sante. Non c’è un nemico con cui prendersela, neppure un Osama Bin Laden da maledire.
A Vienna il palazzo della Presidenza austriaca ha esposto una bandiera nera. In Italia, in attesa che il governo – come altri governi europei – decida una giornata di lutto, bandiere a mezz’asta e lumini appaiono a molte private finestre. C’è tristezza. Ma un augurio di buon anno viene spontaneo. Auguri alle famiglie che aspettano notizie da parenti dispersi laggiù, auguri che tornino salvi. Auguri a milioni di sfollati: la sollecitudine del mondo restituisca presto loro una casa.
GASPARE BARBIELLINI AMIDEI- IL CORRIERE DELLA SERA – Milano
L’ARCA SENZA NOE’
TORINO. Dio dove sei? è il terribile grido di Santa Caterina da Siena che in corsa per raccogliere l’agonia d’un ennesimo sconosciuto inciampa finendo nella melma. «Sono con te, nel fango», è la risposta. La stessa che si avrà quel prete polacco che a Dachau grida «Dio dove sei?» davanti al bimbo ebreo straziato dai reticolati. Ma se Dio è con te e con te soffre e patisce – l’umiliazione, la sciagura, la morte – e dunque è, al pari di chi lo interroga, non giustiziere bensì vittima, ha senso consegnarsi allo tsunami pronunciando l’antica formula: «Sia fatta la Tua volontà»? No, non ha senso: «Dio non c’entra», è la risposta. Due volte drammatica poiché viene da un filosofo contemporaneo, un laico doc: Gianni Vattimo. «Identificare Dio con la Natura imprevedibile e nemica è una enorme bestemmia».
A furia di proclamare – pubblicazioni alla mano – che l’uomo, oggi, in forza della sua sempre più vasta scienza-conoscenza, sa pressoché tutto di questo nostro mondo, abbiam finito col crederci assolutamente padroni di noi stessi, arbitri del nostro destino. Abbiamo finito col credere d’essere la reincarnazione postmoderna d’un intangibile Prometeo in grado, addirittura, di distruggere il pianeta che ci ospita, così dimenticando (o rimuovendo l’idea molesta) che il pianeta, la Terra dico, è parimenti in grado di distruggerci insieme con le impudenti nostre torri che pretendono il cielo.
La carneficina dell’Oceano Indiano ha sparigliato le carte della nostra miserabile partita gonfia di presunzione: crudele, questa Apocalisse neobiblica svela la nostra fragilità di fronte alla Natura. Breve: lo tsunami che se la batte con Pompei ci dice puramente e semplicemente che l’homo faber atomico del Tremila è minacciato dagli identici disastri che afflissero i nostri avi. Il fatto di indossare panni sartoriali, di far picnic sulla Luna, di combattere l’aids non ci libera da quella dittatura implacabile ch’è la Natura. La chiamiamo Madre, Madre Natura, per esorcizzarne i funesti capricci. Non per amore ma per paura, solo per paura. Dio non c’entra con Sumatra, ma il Diluvio universale? Quando s’annunciò «necessario», Dio prese le distanze dalla Natura mettendo in guardia Noè e questi, su divino suggerimento, costruì l’Arca; placatasi l’onda anomala, la vita rifiorì sulla Terra, giusta la misericordia di Dio. Ma era un altro tempo, ahi quanto diverso dall’attuale, quello. Dio comunicava con Noè e questo perché parlavano lo stesso linguaggio: si intendevano. Oggi non ci è dato di comunicare con Dio perché non sappiamo come si fa per ascoltarlo. E i libri, da soli, non aiutano. Nella sua infinita misericordia, Dio ci ha suggerito, non poche volte, di costruire l’Arca, vale a dire ci ha indicato come salvarci. Anche stavolta un’Arca c’era, non di legno di pino e bitume ma in forma di panfilo vanitoso, moltiplicato nella rada detta «il paradiso dei ragiunatt». Ma non c’era Noè nell’arca postmoderna e gli uomini son rimasti soli. «Mamma qui maremot e tut son mort»: questo il «messaggino» di Giuseppe Cannavale, 27 anni, di Aversa, alla sua mamma. «Signore, insegnaci a pregare», invoca Matteo (Mt 11-1). Magari in «sms»: affinché la (beata) speranza non muoia.
IGOR MAN – LA STAMPA- Torino


