«Intorno alle 19, dopo aver prelevato la ragazza e averla stordita, l’ha trasportata nel campo a Chignolo d’Isola. La presenza dell’imputato nella zona è stata correttamente valorizzata come indizio. Così come l’attività professionale del muratore di Mapello, vista la presenza sul cadavere di materiale o prodotti per l’edilizia. Ma anche la presenza di un veicolo simile a quello dell’imputato davanti alla palestra nel tardo pomeriggio del fatto, l’assenza di un alibi». Così comincia la ricostruzione degli accadimenti che hanno generato quello che è uno dei delitti più efferati e discussi degli ultimi anni di cronaca italiana. L’assassino è Massimo Bossetti, la vittima Yara Gambirasio, il luogo è Brembate di Sopra, non lontano da Bergamo. La Corte di Cassazione, rigettando ogni arringa difensiva, così ha chiosato.
«Mai Bossetti era stato in grado o aveva voluto riferire alla moglie, ai cognati e agli altri familiari cosa avesse fatto quel pomeriggio e quella sera e i giudici d’appello hanno «logicamente affermato che non si tratta di un semplice silenzio, giustificato dal mancato ricordo a distanza di anni, ma piuttosto una volontaria reticenza». Colpevole, oltre ogni ragionevole dubbio. La scienza e la biologia supportano la tesi dell’accusa e, quindi, così sia. Condanna all’ergastolo confermata e caso chiuso. Dopo anni, però, resta l’amarezza per una verità sgonfiata fin troppe volte e tempistiche processuali lunghissime ed estenuanti.