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martedì, Maggio 7, 2024
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MEGALOMANIA, POTERE, KITSCH: BENVENUTI A VILLA CAMORRA
Gli inviati di «Repubblica» entrano nelle case sequestrate ai Casalesi

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CASAL DI PRINCIPE. Walterino amava leggere. Omero, le storie di Re
Artù, Walter Scott. Quando nacque il primo figlio maschio, il nome era stato scelto da tempo:
Ivanhoe. Un nome altisonante, che si addiceva al prestigio della famiglia più importante di Casal di Principe.Ma la sua grande passione era il cinema, storie d’azione e di gangster americani. Il fratello maggiore, Francesco, gli aveva sconsigliato di frequentare l’unica sala del paese: «Troppo pericoloso per i tempi che corrono, rischi una pallottola» aveva detto. E così Walterino si era fatto una collezione
di dvd e videocassette, a casa. Sul maxischermo del soggiorno vedeva e rivedeva Scarface, il film in cui AI Pacino sfida il mondo a colpi di mitra, sniffa cocaina e accumula milionate di dollari.

Francesco, invece, preferiva dipingere, un hobby rilassante
che ben si adattava ai lunghi periodi di latitanza. Il suo forte
erano gli autoritratti religiosi sotto forma di icona. Per uno
abituato a sciogliere i nemici nell’acido o a strangolarli a mani
nude, pennellare il proprio volto al posto di quello di Cristo
era un fatto naturale. In fondo il dio in terra era proprio
lui, Francesco “Sandokan” Schiavone, il capintesta di un
cartello di famiglie riottose che aveva preso a schiaffi pure
gli uomini di Raffaele Cutolo, gente che a CasaI di Principe
era diventata il simbolo della camorra più sanguinaria e che,
secondo la Dia, ancora nel 2003 gestiva affari criminali per 30 mila milioni di euro all’anno.

Oggi i due fratelli Schiavone sono In galera, ma il loro dominio
sul territorio rimane Intatto. Le ville che si erano
scelte per dimora, i bunker scavati nella roccia per sfuggire
alla cattura, gli uffici blindati dove trattare business di droga e
appalti, di prostituzione e armi, sono le vestigia postmoderne
di un impero criminale abbacinante. Per non lasciare allo
Stato nemmeno le briciole, gli affiliati del clan dentro quegli
edifici hanno bruciato copertoni di camion, rimosso la rubinetteria
d’oro e fatto sparire gli arredi, nel tentativo di un
estremo sfregio. Ma i segni dell’antico sfarzo non sono andati perduti.
Il commissario Silvana Giusti, capo dell’anticrimine di Napoli,
ancora se la ricorda la faccia dei suoi uomini quando perquisirono
la villa di Walterino, in via Bologna. Erano andati
ad arrestarlo, dopo mesi di pedina menti e intercettazioni, invece
rimasero impagliati, come in soggezione di fronte a tutto
quel ben di dio. «Fu la moglie ad accoglierci – racconta
oggi la poliziotta. – Dietro un cancello di ferro alto cinque
metri si apriva una tenuta hollywoodiana. La facciata della
villa era quella di un tempio greco, solo più pacchiano, con
tanto di timpano e colonne doriche. Nel salotto, oltre la porta
d’ingresso, una doppia scalinata di marmo rosa saliva
con un abbraccio ai piani superiori. Per terra, un pavimento
a scacchiera bianco e nero. Incassati alle pareti, caminetti
ornamentali. Dal soffitto pendeva un lampadario in cristallo
di dimensioni faraoniche. Nel garage erano parcheggiate
auto da corsa e da collezione. Per me è sempre stato chiaro:
quella di Walter era una personalità non del tutto presente
a se stessa». Del ricercato neanche l’ombra. Dentro la
stanza da letto del boss gli agenti si trovarono di fronte a
una piscina di marmo sormontata da una statua antica raffigurante
Venere al bagno. AI boss doveva piacere in modo
particolare quell’angolo di casa, un pezzo di paradiso prefabbricato,
dove poteva immergersi nella schiuma con il sigaro
in bocca, scimmiottando il suo attore preferito. All’architetto
che aveva costruito il bunker, Schiavone non aveva
consegnato un disegno, ma la videocassetta di Scarface,
con la raccomandazione di seguire fin nei minimi particolari
il modello della villa di Tony Montana. E così era stato: Miami
a Casal di Principe.


Fu un particolare fuori posto ad attirare l’attenzione del
commissario Giusti e a consentire successivamente la cattura
del boss. Tra i monitor a circuito chiuso dietro la vasca,
una telecamera rimandava le immagini di un deposito esterno
alla villa, forse il nascondiglio del latitante. «La moglie ci
seguiva nervosamente da una stanza all’altra – ricorda il
commissario – giurava che ormai erano mesi che non vedeva
il marito, che da quando era in fuga quel disgraziato in
casa non si era più fatto vedere. Ma sul letto della sua camera
erano appoggiate delle camicie da uomo, lavate e stirate,
come se qualcuno dovesse passare da un momento
all’altro a ritirare la biancheria fresca. Abbiamo salutato e ce
ne siamo andati. Schiavone l’abbiamo preso qualche settimana
più tardi: era venuto a cambiarsi d’abito».

Correva l’anno 1996 e con quell’arresto la polizia sentì che
per la prima volta il clan traballava. La storia dell’impero di
questi camorristi nati contadini e cresciuti imprenditori è
tutta racchiusa nei verbali dell’ordinanza “Spartacus 3″,
centinaia di migliaia di pagine che descrivono con precisione
gli ingranaggi di una macchina criminale quasi perfetta.
Ma il tempo passa anche per i re, oggi è la guerra di Scampia
che tiene pagina. E così è finita nei trafiletti di cronaca la
notizia che da pochi mesi la villa di Walterino è stata presa
in gestione da Agrorinasce: l’associazione ne farà un centro
sportivo e di terapie per disabili: «Sono 850 metri quadri più
piscina che ristruttureremo secondo un progetto della facoltà
di Architettura dell’università di Aversa – spiega il direttore
Giovanni Allucci. – Intorno alla palazzina ci sono altri 1500
metri di terreno da sfruttare».
Due anni più tardi, la cattura del fratello, in arte “Sandokan”.
Nella sua libreria gli uomini della Dia trovarono decine
di volumi su Napoleone. Viveva in un bunker su tre livelli,
scavato nella roccia e chiuso dietro una finta nicchia a
scorrimento. Gli investigatori scoprirono l’accesso spingendo
un masso appoggiato su due binari, perfettamente mimetizzato.
All’interno, un appartamento attrezzato con fax,
videocitofono e pc. l’aria condizionata manteneva costante
la temperatura in salotto, in cucina e nello studio dove Francesco
scriveva e dipingeva. Sul comodino, gli Atti degli apostoli.
In frigo, provviste sufficienti a resistere a mesi di assedio
degli sbirri. Sotto l’appartamento si apriva un secondo
nascondiglio, ricavato direttamente da una grotta bagnata
da una sorgente d’acqua, dove Schiavone aveva sistemato
una tenda canadese. Sandokan si era nascosto qui per cinque
anni, ed è qui che gli uomini dell’antimafia lo hanno
preso dopo aver sfondato mura e lanciato lacrimogeni nelle
condutture per tredici ore consecutive.

Era il 1998, mese di luglio. Alcuni pensarono che la fine
del Casalesi fosse arrivata davvero, ma si sbagliavano.
Passeggiare oggi per le strade strette di Casal di Principe,
Casapesenna, San Cipriano d’Aversa o Villa Literno fa paura
come ai tempi d’oro del clan. Dietro mura di recinzione altissime,
sormontate da telecamere che ti scrutano mentre
calpesti montagne di monnezza e carcasse di motorini bruciati,
i nuovi boss della camorra continuano a condurre una
vita da favola. O da film.


Il super latitante Michele Zagaria, alleato di ferro della famiglia
Schiavone, è uno dei primi costruttori italiani, con un
impero personale fatto di decine di società edili specializzate
in calcestruzzo e in movimentazione di terra. Le sue imprese,
che cambiano continuamente nome, vincono appalti
pubblici oggi come allora. Ma è solo un esempio. Perché
qui tutto, anche la vita quotidiana, ha una doppia faccia.
In piazza, a Casale, c’è un bar che a prima vista sembra
normale. Solo avvicinandosi si nota il vetro blindato accanto
all’entrata: è crivellato di colpi di kalashnikov. In paese dicono
che gli Schiavone lo usassero per provare i nuovi mitra.
Scattare qualche immagine di questo reperto di archeologia
criminale significa fare i conti con l’aggressività degli uomini
che affollano il locale: «Caro signore, torni da dove è venuto.
Questo vetro non esiste, è pura fantasia».
Come pura fantasia è la storia della statua di bronzo distrutta
a colpi di mitra la notte stessa in cui fu depositata in piazza.
Doveva essere un monumento ai caduti, l’obelisco con
l’aquila in cima: finì sbriciolato in un raid di tiro al piccione
cui si era iscritto mezzo paese. «E si vede che la gente aveva
voglia di pazziare» osservano i guardaspalle del bar. Eppure
le informative raccontano che da quel bar segnato dai
colpi di mitra fino a pochi anni fa partivano le spedizioni punitive
della camorra. Dopo qualche birra si andava a scannare
i nemici per poi tornare a festeggiare sotto gli occhi di
tutti. Dal ’90 a oggi, a Casal di Principe, ci sono stati 200
morti ammazzati senza che nessuno abbia visto o sentito
niente. Un record.


È vero che da qualche tempo In paese non 51 spara più.
Questo non significa che la ruota degli affari si sia fermata,
è solo cambiato lo stile del business. I rapporti della Dia avvertono
che il traffico di droga e armi, gli appalti, il racket e
la prostituzione vanno a gonfie vele. E c’è da crederci. Si
spara solo quando serve, quando non è possibile fare diversamente.
Il segno del tempo che passa si avverte solo al cimitero,
dove sono tumulati i morti della faida che contrappose
bardelliniani e anti bardelliniani. Fu un bagno di sangue
“necessario”, lo sterminio di tutti quelli che dopo la
morte del superboss Antonio Bardellino avevano osato sfidare
l’alleanza tra le famiglie Schiavone e Bidognetti. Sulle
lapidi, accanto ai volti sorridenti, una data si ripete con insistenza:
1992. I soldati della camorra in quell’anno si scontrarono
a fucilate, una mattanza che lasciò sul campo anche
sei morti al giorno. Passare la trentina a Casale era un
miracolo.


Anche Sebastiano Caterino era un soldato, e quindi un morto
che cammina. Dal 1992 al 2003 si era chiuso nella sua
villa bunker. Era in libertà vigilata, e alla polizia che gli chiedeva
di firmare ogni giorno il foglio di presenza aveva man-
., dato a dire che non avrebbe messo il naso fuori dalla porta
di casa: «Se volete, venite voi da me». Ma il 31 ottobre di
due anni fa prese coraggio ed uscì con la macchina blindata.
Erano passati dieci anni. Pensava di avercela fatta. A
mezzogiorno, arrivato in via dei Romani, nel centro di Santa
Maria Capua Vetere, una pioggia di proiettili l’ha dilaniato.
Ora anche la sua fotografia sorridente è nel cimitero di Casal
di Principe. Ha vissuto 48 anni, e da queste parti tutti lo
considerano uno fuori dalla media, un uomo fortunato.




La sfida di Agrorinasce




Nei comuni di Casal di Principe, Villa Lltemo, Casapesenna
e San Cipriano, dove le famiglie della camorra continuano
a sfidare lo Stato, Agrorlnasce lavora dal ’94 per ricostruire
il senso della legalità. Il consorzio, nato con I fondi stanziati
dall’Unione europea per il rafforzamento della sicurezza, In
poco più di un decennio ha creato impiego, realizzato
Infrastrutture sociali e lavorato con le scuole. Non è poco
se si considera che, all’atto di fondazione del consorzio,
due comuni su quattro erano commissariati per Infiltrazioni
di criminalità organizzata. Nell’Agro aversano Agrorinasce
gestisce le ville confiscate ai boss Gaetano Darione, Egldlo
Coppola, Walter Schlavone e Stefano Reccla. Dove ha
potuto, In collaborazione con le università campane, ha
avviato progetti di riconversione degti edifici. Sono nati così
sportelli Informaglovani, ludoteche, medlateche, piscine,
centri sociali, sei palestre e tredici laboratori scolasticI. Il
flore all’occhiello di Agrorlnasce sono però l’Università
della legalità, centro di studi
e dibattiti, e l’area attrezzata per le Imprese di San
Clprlano: 37 mila metri quadrati suddivisi in 17 lotti da
assegnare a realtà produttive locali. A giugno, a Villa
Literno, è stata Inaugurata la prima biblioteca contro le
ecomafle, con volumi su ambiente e legalità, mentre nel
prossimi mesi il consorzio inizierà a rlconvertire le
masserie di campagna della famiglia Schlavone, sfruttando
un fondo già stanziato di 3,5 milioni.






RUBHEN H. OLIVA e MATTEO SCANNI
La Repubblica delle donne (inserto settimanale di Repubblica)
20 agosto 2005

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