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venerdì, Marzo 29, 2024
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ALL’ALI «IL CASO E L’INGANNO» DI VALERIO MORUCCI

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“L’omicidio senza movente di un extracomunitario dà l’avvio all’intreccio del caso e dell’inganno, costringendo il commissario Amidei a un viaggio a ritroso nel tempo e nelle proprie frustrazioni, di uomo e di difensore della legge”. Valerio Morucci con “Il Caso è l’Inganno” è ritornato a Villaricca dopo il lusinghiero successo riscosso nella III edizione del premio Letterario per Scrittori Emergenti “Il Racconto nel Cassetto”, promosso dall’Associazione Ali Onlus, dove ha vinto il terzo premio, con il racconto breve “Audience”. Un incontro che ha visto il pubblico partecipe e protagonista attivo del dibattito con l’autore. Oltre allo scrittore, i docenti: Tobia Iodice che ha analizzato le peculiarità del testo, riscontrandone una filiazione con Gadda e con una tradizione di gialli che a detta dell’autore “è un punto di vista sulla realtà” e Teresa Meo che ne loda soprattutto una qualità: “stimola nell’interlocutore non solo la curiosità di una storia avvincente, ma la riflessione nel dono della parola e della comunicazione”.

“Il Caso e l’Inganno” è la sua settima opera, il suo settimo figlio, come si sente?
Mi sento come un padre che ha messo al mondo dei figli che devono camminare da soli e quindi come tutti i padri che cercano di non interferire nella loro vita. Sono in parte orgoglioso e in pare preoccupato del loro avvenire.

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Con quale atteggiamento si pone nei confronti di questi suoi figli?
C’è un po’ di scoraggiamento, perché il mercato editoriale è estremamente difficile. Si pubblica troppo e con una qualità non eccelsa. La prova è difficile, non ci sono gli sbocchi.

Dalla quarta di copertina emerge l’incertezza, la ricerca costante e profondamente umana di punti saldi. Un giallo diventa mezzo e allo stesso tempo strumento per comunicare lo spaesamento?
Si, direi che questo libro è un viaggio nella perdita dei punti solidi di riferimento. E’ un viaggio nello spaesamento in questo senso. Secondo me è il genere che consente di fare letteratura, sempre avendone i numeri naturalmente. Perché la letteratura è mostrare la condizione dell’uomo, non altro che questo. Oggi c’è questa grande perdita di punti di riferimento, i miei personaggi si muovono in questa altalena tra il rimpianto dei punti saldi e il rendersi conto che non c’è più appiglio e possibilità di approdo

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Questi punti saldi, queste radici sono mai esistite?
Ma, io direi che nel pensiero occidentale ci sono sempre state perché abbiamo voluto che ci fossero, per rafforzare il cammino della nostra civiltà nell’ignoto. Oggi siamo in una condizione preesistente dell’uomo che non aveva ancora trovato un appiglio su cui fondare il suo essere nel mondo. Il problema è che veniamo da un pensiero che questi punti saldi li ha e quindi li abbiamo persi.

Un modo per recuperare Nietzsche, dove si recupera l’uomo dopo l’uomo?
Si, l’oltre uomo è un uomo che recupera se stesso e il proprio essere nel mondo al di là delle ideologie e religioni. Chi riesce a trovare dei punti fermi in se stesso non in qualcosa di esterno a sé. Ovviamente proprio perché la nostra civiltà proviene da punti certi vive ora in un totale spaesamento e una totale alienazione di sé, questo è il problema principale.

Come nelle migliori tradizioni i filosofi pongono solo domande, anche gli scrittori pongono solo domande. C’è una risposta a tutto questo?
No, io credo che uno scrittore che pone delle risposte, non è un buon scrittore. Lo scrittore deve descrivere, con il mezzo letterario, la condizione umana. Non può dare risposte. Le risposte ritrovano nella misura in cui si è in grado di affrontarla per quella che è. Se a qualcosa serve.

Lei si raccorda al filone realistico e perché no a quel realismo fantastico. Il giallo come condizione, come metafora nel quale trarre determinate condizioni umane?
Si, per me il giallo, innanzi tutto, non è un genere, come molti si ostinano a sostenere. E’ soltanto un punto di vista, è il punto di vista che guarda alla società da quella parte di se che è buia, da quella parte di se che è viva al di fuori delle regole e dato che questo fa parte della società. Non è un’invenzione letteraria. E’ il punto di vista sulla deriva della società. Come diceva Rousseau: Una società si giudica dalle sue prigioni. Si può dire che una società si giudica dal suo crimine dal suo tasso di criminalità e da come viene affrontato. Tutto qui.

Un parallelo tra il 68’ e il 2006? Se esiste.
Impossibile, il 68’ è l’anno in cui è iniziata la speranza che si potesse con il pensiero con l’immaginazione e con la fantasia. Costituire una radicale modificazione dei rapporti sociali. Ha influito molto sui comportamenti sociali e culturali e la sua portata ancora viva. Quel che era impossibile era la radicale modificazione dei rapporti sociali. E’ stato l’anno in cui è iniziata la fine dell’illusioni. Nel 2006 ci muoviamo nel campo della delusione, non c’è più alcuna illusione, cioè, siamo completamente arresi alla constatazione che è impossibile un punto di vista univoco nell’affrontare il problema del mondo e quindi le soluzioni a questi problemi.

C’è stato il periodo del cosiddetto “movimento dei movimenti”, un tessuto sociale che si illude ancora. Lei crede che il metodo è sbagliato oppure resta la resa?
E’ l’unica speranza che ci rimane, se c’è qualcosa di positivo in questa speranza è che non si muove al di là di questo mondo, come nel 68’, ma all’interno di questo mondo. E’ un tentativo di mettere una regola a ciò che è deregolato. Il problema oggi è sostanzialmente che la produzione di ricchezza è frenata dalla necessità di trarne profitto. La globalizzazione in sé non è il problema, dirsi “no global” non ha molto senso. La globalizzazione ha delle enormi capacità produttive accumulata dal sapere sociale. Se si riesce a prendere questa strada, che non è contro, ma una strada per, per sviluppare non contro questo tipo di sviluppo. Sicuramente questa è una grande speranza, quindi una crescita della democrazia, il suo compimento, ora non è assolutamente compiuta, perché puramente rappresentativa e delegata.

Cos’è per Lei la democrazia?
Mah, è una domanda estremamente complessa. Era una grande rivoluzione è diventata un meccanismo per perpetrare dei rapporti di forza. Bisogna riprendere il discorso dall’inizio, come la democrazia americana, che è più diretta della nostra. Il suo compimento vuol dire che sia data piena rappresentanza ai cittadini che non abbiano solo facoltà di delega, ma abbiano facoltà di parola e di decisione.

Francesca Grispello

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