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Si impicca in carcere il pentito dei misteri

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Le guardie carcerarie lo hanno trovato alle 6.40 del mattino: la cintura che gli stringeva il collo. Ciro Vollaro, 46 anni, figlio del boss Luigi Vollaro detto il «califfo», è morto nel carcere di Rebibbia, dove era detenuto. Solo dieci minuti prima gli agenti erano passati a visitarlo per il consueto giro e gli avevano somministrato tranquillanti. Una cura cominciata già da alcuni giorni per calmare un’agitazione che lo rendeva a volte depresso, a volte irascibile. Vollaro era il pentito dei misteri: collaborava con la giustizia dal ’96 e aveva partecipato a numerosi processi accusando familiari, camorristi, poliziotti (tra cui l’ex questore di Napoli, il senatore Franco Malvano e politici (da Dell’Utri all’ex sindaco di Portici Leopoldo Spedaliere). Nonostante la sua condizione di pentito, Vollaro non si trovava in una località protetta come sua moglie e i suoi tre figli, ma da solo, in una cella del carcere romano e avrebbe dovuto restarci, per cumuli di pena fino al 2037. Praticamente tutta la vita. «Non c’erano i presupposti perché uscisse dal carcere», spiega il suo avvocato difensore Giampiero Palleschi. Eppure forse questo era il suo cruccio: sembra infatti che sulla branda di Ciro Vollaro siano stati trovati alcuni fogli. Una specie di testamento morale in cui si rammaricava per la sua condizione di detenuto che sentiva di non meritare dopo tanti anni di collaborazione con la giustizia. Tutti i suoi effetti personali e anche i suoi appunti sono stati posti sotto sequestro. Oggi sarà eseguita l’autopsia. Non ci sono indizi che portino verso una ipotesi diversa dal suicidio, ma lo spessore del personaggio e l’importanza dei processi a cui ha preso parte impongono indagini ad ampio raggio. La sua famiglia ha sempre preso le distanze dalla sua scelta: «È morto solo come un cane. Gli avevano tolto anche la patria potestà», spiega con tono accorato sua sorella Ada, che non lo vedeva da 11 anni».

AMALIA DE SIMONE





Il grande accusatore di politici, magistrati e poliziotti

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di GIGI DI FIORE


Dell’ombra criminale di suo padre Luigi, detto ’o califfo per le relazioni con più donne, avvertiva tutto il peso ingombrante. E di quel padre subiva il fascino, in uno spirito di emulazione che lo avrebbe portato ben presto a dare corso alla sua innata indole di violento. Cominciò molto presto la carriera criminale di Ciro Vollaro, erede obbligato dal destino di uno dei più ramificati clan camorristici della provincia vesuviana. Le estorsioni a tappeto, i prestiti a usura, il traffico di droga, le percentuali sul contrabbando di sigarette. Quasi scontata la scelta di campo nei sanguinosi anni delle guerre violente contro la Nco di Raffaele Cutolo. Gli uomini del califfo si schierarono con i Giuliano di Forcella, gli Ammaturo, gli Alfieri-Galasso, i Moccia, i Nuvoletta. E quel giovanotto appena ventenne, pezzo di marcantonio alto e robusto, non ci mise molto a mettere in pratica le sue idee criminali. Nessuno spazio alle mediazioni, per Ciro Vollaro contavano solo i rapporti di forza. E il padre dovette spesso usare tutta la sua autorità per proteggerlo e tenerlo a freno in anni in cui gli omicidi tra clan in guerra erano quotidiani. Il loro regno era l’area tra Portici, San Giorgio a Cremano, Ercolano. La loro villa-bunker nell’oasi di San Sebastiano al Vesuvio. Un pentito puntò il dito sul clan e fu il carcere per il califfo ed il figlio Ciro. Il battesimo criminale, la patente di camorrista e di capoclan. All’uscita maturò la sua ascesa. In venti anni il carcere fu a fasi alterne la sua seconda casa: associazione camorristica, estorsioni. Poi, la svolta. I fratelli Cozzolino di Ercolano, alleati dei Vollaro, decidono di pentirsi. Con i pm Giuseppe Narducci e Aldo Policastro sono un fiume in piena sulle collusioni tra clan e poliziotti di Portici-Ercolano. È il primo blitz, il nuovo arresto dei Vollaro. Violento sì, ma con senso della famiglia e amore per i dieci tra fratelli e sorelle. Uno, Antonio, viene accusato di due omicidi. D’impulso, Ciro esplode nell’aula dell’ottava sezione del Tribunale: «Mio fratello non c’entra nulla, quei due li ho uccisi io». Un gesto istintivo, sentiero fertile per i magistrati che battono sull’indole instabile di Ciro, reso fragile dalla sua irrefrenabile passione per la cocaina. Il boss in ascesa diventa collaboratore di giustizia. È il 1996. Ciro Vollaro ha 36 anni. Con lui, si pentono i suoi guardaspalle: Francesco Di Pierno e Francesco Pariota. Le loro dichiarazioni sono un terremoto per la provincia vesuviana. Coinvolgono due ex sindaci e un sindaco in carica di Portici, funzionari di polizia, imprenditori. Parlano degli appoggi elettorali forniti ad amministratori di ogni colore politico: dalla Dc al Pds. Poi, degli accordi con gli imprenditori locali per tangenti del cinque per cento, delle loro mani sugli appalti per i lavori alla reggia di Portici, all’ex albergo Poli, alla rete idrica di Massa di Somma. Le collusioni corruttive con alcuni poliziotti, il traffico di droga: è la stura per decine di arresti. Una bufera si abbatte su Portici ed Ercolano. Ma il ruolo di pentito, poco meditato, poco metabolizzato, viene vissuto da Ciro Vollaro con sofferenza. Si agita nel carcere di Rebibbia e si sbanda quando, a mo’ di avvertimento, gli uccidono il suocero: Ciro De Crescenzo. È il 15 febbraio del 1997. Vendetta trasversale, che lo allontana dalla moglie e dai figli. La donna non gli perdona la scelta e la morte del padre. Il califfo gli fa conoscere la sua disapprovazione. Ciro Vollaro resta solo con la sua decisione. Parla per primo del rapimento dell’armatore Grimaldi, voluto dai clan della Nf. In quel processo, viene condannato a nove anni. Fa dichiarazioni contro il giudice del Riesame Gianpaolo Cariello su presunte corruzioni per decisioni favorevoli, aggiungendosi a Luigi Giuliano. Poi, compare anche nei processi di mafia a Palermo contro Dell’Utri e a Perugia nel processo Andreotti-Vitalone: rivela vicende carcerarie, tra Pianosa e Rebibbia, legate a presunte manovre per screditare i pentiti. Viene citato tra i testi d’accusa. Spera sempre di lasciare la cella dorata di collaboratore di giustizia. È solo: la moglie gli nega le visite dei figli, ha tentato anche la carta dei giudici per vederli. Ma nulla. Camorrista per destino, pentito quasi per caso, Ciro Vollaro prende così la sua ultima decisione. Ancora d’impulso. Nella cella solitaria, si toglie l’unico bene di cui poteva disporre a 46 anni: la vita.



IL MATTINO 13 SETTEMBRE 2006

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