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venerdì, Marzo 29, 2024
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“Donne e bambini non si toccano”, l’ipocrita codice d’onore delle Mafie

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Più di mille morti. Questo il triste dato inerente alle vittime innocenti di mafia in Italia. Venti volte le vittime italiane in Afghanistan. Trentadue volte le vittime italiane cadute in missione in Iraq. Ma a fare maggiormente effetto è il “motto”, il comandamento aureo della legge criminale: “Donne e bambini non si toccano”. Un paradosso, un dogma che vale di fatto soltanto a parole. Una frase che, più che valida in quanto tale, sembra valere più come comandamento affinché un uomo di mafia possa definirsi “d’onore”.

“DONNE E BAMBINI NON SI TOCCANO”: CODICE CHE VALE SOLO A PAROLE

Al contrario di quanto recita la frase, infatti, i dati mostrano il contrario: quasi una vittima su quattro è donna o minorenne, il 23,47 per cento. Non si tratta nemmeno di una regola trasgredita a causa di un imbarbarimento progressivo dei “costumi”, perché a uccidere bambini e donne i mafiosi cominciano presto.

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Stando ai dati dell’Istat, tra il 1983 e il 2018 sono stati rilevati 6.681 omicidi attribuibili a organizzazioni criminali di tipo mafioso. Nelle regioni Campania, Sicilia, Calabria e Puglia, territori di radicamento storico di camorra, cosa nostra, ‘ndrangheta e sacra corona unita, si concentra nell’intero periodo il 95,6% degli omicidi mafiosi. Il periodo più cruento è sicuramente il quinquennio a cavallo del 1990, in cui la quota di omicidi mafiosi arriva a costituire un terzo dei circa 8mila omicidi avvenuti tra il 1988 e il 1992.

A COSA NOSTRA IL “PRIMATO” PER UCCISIONI DI INNOCENTI

Cosa Nostra è l’organizzazione che ha ucciso più innocenti: 445. È in Sicilia la prima strage con il coinvolgimento della mafia. Il primo maggio 1947 a Portella della Ginestra, località incastonata tra i monti che circondano Palermo, muoiono undici persone sotto i colpi del mitra di Salvatore Giuliano, il bandito separatista che sparò sulla folla riunita per commemorare la Festa dei Lavoratori, ripristinata dopo il fascismo.

La violenza mafiosa non riguarda però solo le cosche isolane. Se fino al 1992 la Sicilia detiene il triste primato, dopo le stragi dei giudici Falcone e Borsellino il numero di vittime cala in modo netto: solo il 15 per cento degli omicidi di Cosa Nostra è stato commesso dopo questa data spartiacque. Un fatto che rende evidente il cambio di strategia dell’organizzazione dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio.

Dal 1993 al 2018 crescono gli omicidi in Campania e Calabria. La regione piagata dalla violenza camorrista è seconda per numero di vittime dopo la Sicilia: 203 morti, la metà di questi tra il 1993 e il 2018, arco temporale in cui l’efferatezza dei crimini della mafia campana tocca livelli tragici. Come nei fatti di Castel Volturno, quando una sparatoria per eliminare un sospetto informatore ha portato alla morte di sei immigrati per mano del clan dei Casalesi. La Calabria, con 180 morti, è al terzo posto.

TASSO CHE VA A DIMINUIRE NEGLI ANNI NOVANTA

A partire dai primi anni Novanta, l’Italia ha visto diminuire il tasso di omicidi, inizialmente in modo repentino, e successivamente in modo più regolare. Nel 2018, a un tasso nazionale di 0,57 omicidi per 100mila abitanti, corrispondono valori pari a 0,43 per il Centro-nord e a 0,83 per il Mezzogiorno. Malgrado vi sia ancora un divario notevole tra il Mezzogiorno, storicamente caratterizzato da incidenze più elevate di omicidi di criminalità organizzata, e il resto del Paese, il forte decremento che ha caratterizzato alcune regioni meridionali porta a un riavvicinamento delle aree geografiche.

LA STORIA DI ANNALISA DURANTE

Restando nel tema delle aggressioni e degli omicidi di innocenti ad opera della mafia, una delle storie più toccanti e segnanti degli ultimi anni è sicuramente quella di Annalisa Durante, ragazzina napoletana residente nel quartiere di Forcella, cuore del centro storico della città di Napoli, uccisa da un proiettile vagante la sera del 27 marzo 2004, all’età di 14 anni.

Annalisa Durante. Un nome sinonimo di una morte innocente. E che quest’anno avrebbe 32 anni. Sarebbe una donna, se quel maledetto giorno del marzo 2004 non fosse stata colpita da un proiettile vagante partito dalla pistola di Salvatore Giuliano, detto “o russo”.

È sera inoltrata in quel 27 marzo del 2004 e Annalisa decide di scendere in strada per trascorrere un po’ di tempo con un’amica e sua cugina. Chiacchierano tranquillamente a poca distanza da casa Durante. Di lì a poco, arriva Salvatore. Lui di anni ne ha 19 e ha un cognome ingombrante: Giuliano. Nonostante sia giovanissimo, è già perfettamente inserito nelle dinamiche criminali della sua famiglia, di cui è considerato un rampollo. Con lui c’è suo fratello Antonio. I due si fermano a fare due chiacchiere. Qui del resto si conoscono un po’ tutti e tutti condividono gli stessi spazi.

Ma quella sera per Sasà Giuliano qualcuno aveva deciso un altro destino. Un po’ di tempo prima, l’avvento della famiglia Mazzarella a Forcella aveva provocato malumori nel clan Giuliano. La spaccatura che ne conseguì fu la scintilla per una nuova faida interna. Sasà doveva essere l’ennesima vittima di questa guerra. I killer inviati dai Mazzarella arrivarono a bordo di due scooter. Quando avvistarono l’obiettivo della spedizione, cominciarono a sparare all’impazzata. Salvatore rispose al fuoco e si salvò. Ma a terra rimase il corpo di Annalisa, colpita al volto da una pallottola. La corsa in ospedale, dapprima al più vicino Ascalesi e poi al Loreto Mare, fu inutile. I danni al cervello erano troppo gravi e la ragazza andò in coma irreversibile. Morì tre giorni dopo.

La notizia dell’uccisione di Annalisa sconvolse Napoli e l’Italia intera. Il quartiere reagì, nel mentre gli inquirenti si misero al lavoro per assicurare alla giustizia i responsabili di quella tragedia. Sasà ‘o russo, come tutti lo chiamavano per il colore dei suoi capelli, fu arrestato a casa di un parente che gli aveva dato ospitalità a Pomigliano d’Arco. Il ragazzo negò di aver sparato. L’autopsia e gli esami balistici sulla sua pistola però lo smentiranno: il colpo che aveva ucciso Annalisa era partito proprio dalla sua arma. Il 31 marzo del 2006, a due anni esatti dall’omicidio di Annalisa, fu condannato a 24 anni di carcere.

Pena ridotta a 18 anni in appello e poi aumentata di nuovo a 20 con la pronuncia definitiva della Cassazione, il 16 aprile del 2008. Un processo difficile, con la famiglia che, nonostante le pressioni e le intimidazioni, decise comunque di costituirsi parte civile. Un clima pesante, che influenzò non poco i testimoni che avrebbero dovuto deporre a favore dell’accusa. Nel marzo 2020, Salvatore è stato scarcerato in anticipo per buona condotta.

LA STORIA DI GIUSEPPE DI MATTEO

Da donne innocenti a bambini innocenti, che pagano con la propria vita gli errori di qualcun altro. Il cognome di Giuseppe Di Matteo è indissolubilmente legato a quello del padre. E anche il suo atroce destino. Il padre di Giuseppe era un mafioso. Apparteneva alla famiglia di Altofonte, da sempre vicina ai corleonesi di Totò Riina. Fu arrestato nel giugno del 1993, accusato di aver commesso una decina di omicidi. Fu tra i primi collaboratori di giustizia e fornì agli investigatori informazioni preziose in merito alla Strage di Capaci e all’omicidio dell’imprenditore mafioso Ignazio Salvo, ucciso il 17 settembre del 1992. La sua decisione di collaborare con la giustizia fu la scintilla che innescò il tragico destino di questo bambino che amava i cavalli.

Giuseppe era nato il 19 gennaio del 1981 a Palermo. Era cresciuto a San Giuseppe Jato, dominio della famiglia Brusca, cosca mafiosa storicamente tra le più vicine ai corleonesi. Nelle ampie distese di campagna della Valle dello Jato, Giuseppe aveva coltivato la sua passione per l’equitazione. E fu proprio in un maneggio di Piana degli Albanesi che il 23 novembre del 1993 fu rapito con l’inganno. Gli uomini di Giovanni Brusca, “ninni”, gli si presentarono davanti travestiti da poliziotti. Giuseppe pensò subito che quegli uomini in divisa erano lì per consentirgli di vedere suo padre, che era già sotto protezione in una località segreta a seguito della sua decisione di collaborare con la giustizia. Ma quegli uomini non erano poliziotti. Le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che partecipò al rapimento, hanno fatto luce su quello che accadde quel giorno e negli oltre due anni successivi. 26 mesi. 779 giorni.

 IL RAPIMENTO E L’UCCISIONE

Quel maledetto 23 novembre Giuseppe fu preso a forza, legato e infilato nel cassone di un Fiorino. Fu condotto in un magazzino di Lascari e poi consegnato ai suoi carcerieri. Durante la prigionia fu spostato tra il palermitano, il trapanese e l’agrigentino, prima di essere rinchiuso, nel 1995, in un casolare nelle campagne di San Giuseppe Jato.

Nei giorni seguenti il rapimento, la sua famiglia lo cercò ovunque, a cominciare dagli ospedali della zona. Ma il primo dicembre fu chiaro a tutti cosa fosse accaduto. Alla famiglia arrivò un biglietto inequivocabile: “Tappaci la bocca”. Insieme al biglietto, due foto del piccolo Giuseppe con in mano un quotidiano datato 29 novembre. Il 14 dicembre, la madre di Giuseppe, Francesca Castellese, denunciò la scomparsa di suo figlio.

La sera stessa, al nonno arrivò un altro messaggio inquietante “Il bambino ce l’abbiamo noi, non andare ai carabinieri se tieni alla pelle di tuo nipote”. Successivamente, allo stesso nonno – si chiamava Giuseppe Di Matteo anche lui – fu mostrata anche una foto del ragazzo: “Devi andare da tuo figlio e farci sapere che, se vuole salvare il bambino, deve ritirare le accuse fatte a quei personaggi, deve finire di fare tragedie”. Gli dissero così. E fu la conferma definitiva di quanto era apparso subito chiaro. Santino doveva smetterla di collaborare. Il destino di Giuseppe era legato a lui e a quello che avrebbe deciso. Cosa Nostra stava usando la vita di un bambino di 12 anni per vendicarsi di un pentito.

Le ricerche del bambino non ebbero alcun risultato. Ci provò addirittura direttamente suo padre Santino, che nell’ottobre del ’95 sparì dalla località segreta dove era nascosto nell’estremo ma vano tentativo di trovarlo. Alla fine, decise di non fermarsi: avrebbe continuato ad aiutare i magistrati. 

Fino all’11 gennaio del 1996. Il giorno della pronuncia della Corte di Cassazione sull’omicidio di Ignazio Salvo, che condannò all’ergastolo Brusca, il boss era davanti alla televisione. Si infuriò. Fu in quell’istante che le colpe del padre finirono per essere pagate dal figlio.

Il boss diede a Enzo Brusca, Vincenzo Chiodo e Giuseppe Monticciolo l’ordine di ammazzare Giuseppe. Il piccolo fu strangolato con una corda e poi letteralmente cancellato, sciolto in un fusto di acido nitrico. Poi i mafiosi, come racconteranno poi i pentiti, se ne andarono a dormire. Come se nulla fosse accaduto. Era l’11 gennaio del 1996. Giuseppe avrebbe compiuto 15 anni otto giorno dopo.

PROCESSO E RISVOLTI GIUDIZIARI

Le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza hanno consentito lo svolgimento di diversi processi che hanno portato a decine di condanne. Il 16 gennaio 2012 sono stati condannati all’ergastolo, nel quarto processo sulla morte del bambino, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, tra i mandanti del sequestro insieme a Brusca. Poi Luigi Giacalone, Francesco Giuliano e Salvatore Benigno, che invece ne curarono l’organizzazione.

Il 18 marzo 2013 le condanne sono state confermate anche in appello. Nel medesimo processo, è stato condannato a 12 anni lo stesso Spatuzza. Negli altri processi sono stati condannati, tra gli altri, anche Cristoforo Cannella, che guidava l’auto il giorno del rapimento, e Benedetto Capizzi, che procurò il luogo dove il bambino fu rinchiuso subito dopo il sequestro. Condanne sono arrivate anche per Leoluca Bagarella, Giuseppe Monticciolo e Vincenzo Chiodo. Fu quest’ultimo a raccontare passo passo i dettagli più macabri dell’uccisione del bambino.

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