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martedì, Maggio 7, 2024
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“Mi batterò per avere carceri più umane”, Antonio Piccirillo pronto a collaborare col garante dei detenuti di Napoli

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Il forte stimolo ad aiutare i detenuti a reinserirsi nella società una volta usciti facendo percorrere loro un percorso di legalità come lui stesso ha fatto disconoscendo il mondo criminale di cui suo padre è stato un esponente di spicco a Napoli con «la speranza, seppur utopistica, di far terminare il mondo delinquenziale». Antonio Piccirillo è il figlio di Rosario Piccirillo detto “O Biondo’’, boss della “Torretta’’ di Mergellina finito in carcere con diverse condanne per usura, racket e riciclaggio. Divenuto noto soprattutto dopo aver preso parte nel 2019 alla marcia DisarmiAmo Napoli organizzata a seguito dell’agguato nel quale rimase ferita la piccola Noemi in piazza Nazionale, momento in cui parlò davanti a tantissimi giornalisti della sua storia familiare, il 25enne si dice ora pronto a collaborare con il garante dei detenuti di Napoli Pietro Ioia e con il suo team per lavorare alla costruzione di un’alternativa per chi ora sta scontando una pena detentiva.

Le dichiarazioni di Antonio

«Voglio costruire un carcere in cui i detenuti facciano di percorsi creativi e di lavori e far sì che il carcere sia un ponte per il reinserimento. Voglio guardare negli occhi tutti i nostri padri che si trovano adesso in carcere perché una volta usciti possano fare un passo indietro. Io quasi pretendo che lo facciano sperando, utopisticamente, che questo mondo delinquenziale possa terminare», afferma Antonio. Ovviamente, i pregiudizi dilagano e Piccirillo ne è consapevole. Quello più pesante da scardinare, dice, «è quello della commiserazione. È difficile farlo capire a chi non ha vissuto storie criminali da figli e da detenuti. Ci sarà una battaglia – aggiunge Antonio – da fare perché ogni volta che si parla di detenuti lo si fa con troppa retorica. Io voglio parlare di reinserimento al cuore dei nostri padri, perché è difficile spiegare cosa abbiamo vissuto io e la mia famiglia. La maggior parte della mia vita l’ho passata a raggiungere mio padre nelle carceri, con mia mamma che mi diceva che mio padre era quello che costruiva le carceri».

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Non mancano neppure gli episodi imbarazzanti, quelli che rientrano sempre nella casistica dei pregiudizi. Antonio Piccirillo ne racconta uno. «Una volta eravamo in un bar con degli amici e le persone presenti erano tutte pregiudicate. D’improvviso arrivarono dei poliziotti per effettuare dei controlli facendo uscire tutti i minorenni. L’unico ad essere bloccato fu mio fratello che all’epoca aveva 13 anni. Un poliziotto gli disse “Aro’ vaj tu, Piccirì? ‘’, chiamandolo per cognome perché era figlio di Piccirllo». Antonio ravvisa un «disprezzo anche di parte delle autorità e alcuni ne fanno parte perché non c’era altro da fare. Mio fratello in quell’occasione fu trattato non da adolescente ma come il figlio del boss che doveva stare con gli adulti e i pregiudicati e vivere quel distacco. Quella diversità perché la si voleva e molte volte la si cerca».

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