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mercoledì, Maggio 8, 2024
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Villariccca e le foibe, la storia di Antonio Chianese

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di Nico Pirozzi

A differenza di quanto accadde per Vincenzo Tecchio, il presidente repubblichino dell’IRI, la scelta di aderire alla Repubblica Sociale Italiana per Antonio Chianese, agente di P. S., non fu dettata da particolari convinzioni politiche o da convenienze di sorta, bensì dal caos in cui era improvvisamente sprofondato il Paese, dopo l’annuncio dell’armistizio con gli ex nemici, del settembre 1943, e, non da ultimo, dall’assenza di prospettive che, ieri come oggi, si stagliano all’orizzonte di una piccola realtà del Sud.

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Sesto degli otto figli di Giovanni, un agricoltore che alternava questa attività con quella di fattore, e di Adele Danzi, Tonino era nato a Villaricca il 24 luglio del 1923: nove mesi dopo che le camicie nere di Mussolini avevano portato a termine la marcia su Roma. La sua vita di bambino e di adolescente, trascorsa tra i banchi dell’unica scuola del paese e i vicoli del centro storico dell’antica Panicocoli, fu scandita da un solo colore: il nero. Il nero dei balilla e quello ancor più nero degli avanguardisti della Gioventù italiana del littorio.

Quando, nell’ottobre 1935, ascoltò per la prima volta la voce di Mussolini, amplificata dagli altoparlanti che il Comune di Villaricca aveva noleggiato e fatto installare in occasione dell’Adunanza generale delle forze del regime nelle vie principali del paese, cominciò a porsi qualche domanda. Ma evitò di farne troppe al padre, alquanto colto ma estremamente spigoloso nei modi, che del fascismo aveva un’idea tutta sua: mai inimicarsi chi ti dà da mangiare; chi può esserti in qualche modo utile; e soprattutto chi, in quel momento, comanda. Gli stessi identici dubbi si riproposero qualche anno più tardi – nel 1939, per l’esattezza – quando da una delle due radio che il podestà Francesco D’Aniello aveva fatto acquistare per le scuole al prezzo di 550 lire l’una, risentì la voce dell’uomo della provvidenza. Qualche delucidazione, chiamiamola così, l’avrebbe pretesa da Gerardo, Ferdinando e Franzino (Francesco), i tre fratelli più grandi, ma – verosimilmente – tutto si risolse con una pacca sulla spalla e un più che probabile «capirai tutto quando sarai più grande». Con le due sorelle maggiori, Bianca e Solina (Orsola) e i due fratelli più piccoli, Gigino e Gaetano, non gli capitò mai di affrontare certi argomenti.

Il quadro cominciò ad essere più chiaro intorno ai 17 anni. Quando, come tutti gli abitanti del piccolo centro a nord di Napoli, apprese direttamente dalla voce del duce, diffusa dall’altoparlante montato nella piazza del paese, che era giunta «l’ora delle decisioni irrevocabili». Che tradotto, significava che l’Italia scendeva in guerra «contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente».

Le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente? E chi sono? Si domandarono un po’ perplessi i più, senza comunque sottrarsi al battimani che dopo aver contagiato piazza Venezia a Roma, aveva infettato anche piazza Garibaldi (oggi Giuseppe Majone) a Villaricca. A quella manifestazione di giubilo non si sottrassero i sei figli maschi di Giovanni, che il padre aveva accompagnato in piazza, quel secondo lunedì di giugno del 1940. Esonerandoli, per l’occasione, di seguirlo in campagna. Sì perché, suggerisce uno sbiadito appunto a matita posto a margine di una vecchia scheda dell’anagrafe del Comune di Villaricca, Tonino aveva già una professione, prima di arruolarsi in Polizia, quella di agricoltore.

Comunque sia, per capire il significato di quel “Credere, obbedire, combattere”, che chissà quante volte aveva letto sul muro vicino casa, non impiegò molto tempo. Lo capì quando ai due fratelli maggiori, Gerardo e Franzino, fu recapitata la cartolina per presentarsi al servizio di leva.

Se “credere”,  già nell’autunno del 1941, era diventata un’impresa assai difficile per la gran parte dei napoletani, resistere e combattere appariva più un auspicio che non qualcosa di veramente praticabile, quando i primi B52 americani e Wellington inglesi cominciarono a sorvolare anche i cieli di Villaricca.

Di bombe, sul paese, non ne sganciarono quasi mai. Ma la paura era tanta. Soprattutto, quando il cupo rumore delle fortezze volanti stracariche di block-busters e altri micidiali ordigni, destinati alla città capoluogo, faceva ammutolire anche gli uccelli.

 

Perché e quando decise di arruolarsi in Polizia, è difficile dirlo. Sicuramente lo fece prima dell’8 settembre 1943. Forse convinto dagli slogan del regime che inneggiavano all’ordine e alla disciplina. O più prosaicamente dalla preoccupazione che tante bocche da sfamare potessero – prima o poi – diventare un problema anche per papà Giovanni. Oppure – come accadde per altri ragazzi della sua stessa età – perché spinto da un incontenibile desiderio di sfuggire a una realtà opprimente, come poteva essere quella che si respirava in un piccolo paese agricolo della provincia di Napoli. Probabilmente, ma tutto da dimostrare, per combattere anche lui la sua guerra.

Dove fu destinato al momento dell’assegnazione, poco importa. Certo invece è che, l’8 settembre del 1943, quando aveva da poco compiuto vent’anni, fu chiamato a fare una scelta. La più delicata e importante della sua vita.

No, non si schierò dalla parte dei carnefici, come invece fece Francesco Credentino, anche lui originario di Villaricca, volontario nel Battaglione “Barbarigo” della X Mas. Lui, Tonino, decise di stare dalla parte di quello che credeva lo Stato legittimo. In fondo, l’unico che aveva conosciuto. Quello Stato che, fino ad allora, gli aveva assicurato un lavoro e uno stipendio a fine mese.

Ma lo stare dalla parte della RSI e di chi aveva portato l’Italia sull’orlo del baratro non fu una scelta per così dire felice. E ancor meno lo fu il farsi trovare in una città di frontiera, come Gorizia, a fare il poliziotto. Lo comprese bene nella settimana a cavallo tra il mese di aprile e quello di maggio del 1945, quando i tedeschi iniziarono a lasciare la città, mentre bande di miliziani cetnici, anche loro in precipitosa fuga, iniziarono a depredare case e negozi, non esitando ad uccidere chi tentava di opporsi. A fermare il saccheggio furono alcuni gruppi della Resistenza e anche numerosi uomini in divisa, che ingaggiarono furiosi scontri a fuoco con i nazionalisti jugoslavi. Fu nel corso di una di queste violente scaramucce – racconta Mario De Marco, che quindici anni fa ha indagato su quella vicenda – che gli agenti della Questura di Gorizia furono contattati da un sottufficiale del Regio Esercito Italiano che combatteva tra le fila della Resistenza, che consigliò loro di abbandonare la città, per evitare problemi con i partigiani jugoslavi, ormai alla periferia di Gorizia. La maggior parte dei poliziotti, ritenendo di non avere colpe e di avere compiuto il proprio dovere – aggiunge De Marco – decise di restare al proprio posto.

Lo fece anche Tonino.

Quando tutto era pronto per accogliere i neozelandesi del generale Freyberg, in città iniziarono ad affluire le avanguardie del IX Korpus dell’esercito di liberazione jugoslavo. Nel pomeriggio del primo maggio il commissario “Boro” prese possesso della prefettura, annunciando che da quel momento l’unica autorità riconosciuta era quella jugoslava, e che solo quest’ultima aveva diritto di emanare ordini.

Il giorno seguente, un mercoledì, andò ancora peggio. Nel breve volgere di poche ore Gorizia aveva cessato di essere Italia, per divenire Jugoslavia. O meglio, circondario sloveno. E lui, Tonino, aveva improvvisamente smesso di essere un poliziotto.

Senza avere nemmeno il tempo di capirlo era diventato un occupante fascista di una città le cui strade andavano riempendosi di bandiere blu, bianche e rosse, con al centro una stella rossa, e di scritte che inneggiavano a Tito e a Stalin.

Per la prima volta nella vita, ebbe paura. Molta di più di quella che, quando era bambino, gli incuteva il padre quando, a bordo del calesse, tornava dalla campagna.

La paura divenne qualcosa frammista a terrore, quando qualcuno gli ricordò che due anni prima, quando Gorizia era stata temporaneamente occupata dagli uomini del Fronte di Liberazione del Popolo Sloveno (Osvobodilna Fronta ), persone come lui, che indossavano una divisa, erano finite nel fondo di una foiba.

Giustiziati senza processo. E poco importa se fascisti o antifascisti. Badogliani, monarchici o repubblichini.

Tonino fu disarmato e caricato su un camion senza insegne nella notte tra il 2 e 3 maggio. Quella stessa notte agenti dell’Ozna, il Dipartimento di sicurezza del Popolo, la Polizia di Tito, arrestarono anche il questore di Gorizia, Vito Genchi, e centinaia di altri uomini in divisa che non avevano fatto in tempo a mettersi in salvo. Chi non fu subito passato per le armi, fu deportato in uno dei tanti campi che l’Ozna aveva predisposto a ridosso dei vecchi confini con l’Italia. Identica sorte toccò al giovane poliziotto napoletano. Di lui, come di migliaia di altre persone, non si ebbe più notizia. Forse morì di fatica e di stenti. Più probabilmente fu gettato vivo, come centinaia di altri italiani, in uno di quei profondi crepacci che fanno parte dell’orografia del Carso. Certo è che a Villaricca, il suo paese, non tornò mai più.

A differenza di quanto gli uomini e le istituzioni post fasciste hanno riservato a Gaetano Azzariti, il presidente del tribunale fascista della razza, e a Rodolfo Graziani, il boia di Debra Libanos e ministro della Guerra della RSI, nessuno s’è mai sognato – e bene è stato – di titolare una strada, una piazza o un sanpietrino a Tonino Chianese, agente di P. S., disperso in guerra. La sua storia, la sua piccola e breve storia, comparsa quasi per caso dalle pieghe della “grande” storia, è – e resta – un paradigma. Il più efficace dei modi per spiegare a tanti imbecilli che continuano ad inneggiare al duce, al ventennio e alla Repubblica Sociale Italiana, cosa realmente ha rappresentato il fascismo per l’Italia e una generazione di italiani. Anche per Tonino Chianese, vittima di un sogno in bianco e nero. Troppo nero e indecifrabile per un ragazzo di 22 anni.

P.S.Per completezza d’informazione, Francesco Credentino, l’altro villaricchese che aveva
aderito alla RSI, perì (assieme a nove altri commilitoni) l’8 luglio 1944 a Ozegna, in provincia di
Torino, dopo essere incappato in un imboscata tesa loro da un gruppo di partigiani. Aveva 33 anni.

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