«Isso» è il più ricco, il più potente, il più temuto. Guai a farne il nome senza permesso, a trattare un’estorsione per suo conto, a cercare di incontrarlo en plein air, senza le schermature elettroniche che fanno impazzire le microspie e isolare i cellulari. Isso, zio Michele «capastorta», è il capo e si comporta da imperatore, imperatore dei Casalesi. Pretende rispetto, lo impone anche a un killer spietato come Giuseppe Setola, l’uomo delle stragi del 2008. E lo ottiene, perché Michele Zagaria è nato assassino ed è diventato imprenditore, sa sparare e usare il tritolo, e non c’è Setola che tenga. Solo dei suoi familiari stretti si fida: il padre, i fratelli, le sorelle, qualche cugino, un gruppetto risicatissimo di giovanotti che gli sono fedeli e ne coprono trasferimenti e latitanza. Lui compreso, una ventina di persone federate al cartello di Iovine-Schiavone-Bidognetti ma con una più moderna e globalizzata visione criminale. Sedici sono finite nell’ultima inchiesta della Dda di Napoli, coordinata dai pm Federico Cafiero de Raho, Antonello Ardituro, Marco Del Gaudio, Catello Maresca. E rispondono di associazione camorristica – l’appartenenza, appunto, al clan Zagaria – e, a vario titolo, tentata estorsione e rivelazione di segreto d’ufficio. Un gruppo ristretto del quale fanno parte l’anziano padre Nicola, il fratello Carmine, un paio di imprenditori, qualche insospettabile fiancheggiatore. Quattordici gli arrestati nel corso della notte, a conclusione di un’indagine interforze – carabinieri del Ros e del gruppo provinciale di Caserta, Squadra mobile di Napoli, finanzieri del Gico e dello Scico – che ha smascherato la rete di protezione del boss, latitante ormai da oltre quattordici anni, e ricostruito quella parte dell’impero economico ricostruito dopo l’arresto di Pasquale «Bin Laden», un altro fratello di Michele Zagaria, e il sequestro di aziende, ditte, immobili. Una ricchezza basata sul cemento, come sempre, grazie al controllo dei settori-chiave del comparto edile: il calcestruzzo e il movimento terra. E frutto dei reinvestimento del denaro delle estorsioni sulle grandi opere realizzate, o in fase di progettazione, tra le province di Caserta e Napoli. A partire dal porto turistico di Pinetamare. Fatti ricostruiti nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip distrettuale Tullio Morello e illustrati ieri in una conferenza stampa alla quale hanno partecipato, oltre al capo della Procura di Napoli, Giovandomenico Lepore, e all’aggiunto Federico Cafiero, anche i vertici delle forze dell’ordine che hanno lavorato a quest’indagine: il capo della Squadra mobile di Napoli, Vittorio Pisani; il comandante provinciale dei carabinieri di Caserta, Carmine Nardone; della guardia di finanza, Giovanni Mainolfi; dello Scico, Umberto Sirico. A sorpresa, ha voluto essere presente anche il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, a segnalare l’importanza dell’operazione e la ferma intenzione delle strutture investigative di proseguire sulla strada della cattura dei grandi latitanti e delle confische. In manette, come dicevamo, Nicola Zagaria, 83 anni, il solo ad aver ottenuto gli arresti domiciliari per motivi di età; Carmine Zagaria, 42 anni, arrestato appena sbarcato a Olbia da Civitavecchia: era andato in Sardegna per andare a trovare il fratello Pasquale, detenuto nel carcere di Badu ’e Carros. E poi: gli imprenditori Luigi Abbate, Gennaro Goglia, Paolo Cangiano, Saverio e Antonio Fontana. Cangiano era l’uomo che manteneva i contatti con l’appuntato dei carabinieri, già arrestato, che dava l’allarme in prossimità degli interventi delle forze dell’ordine. Inoltre, i «militari» del gruppo, Michele Barone, Raffaele e Salvatore Nobis, Antonio De Rosa. Infine i fiancheggiatori: Pasquale Pagano, titolare di una ditta di rimozione di auto e carrozziere, nipote di un magistrato in servizio a Napoli; Giovanni Zagaria, Oreste Basco. Mancano all’appello solo un altro fiancheggiatore, Massimo Di Caterino, e ovviamente lui, il capo. Che da qualche ora, però, è un po’ più solo.
Rosaria Capacchione
Il Mattino il 02/04/2010
Il pentito: percorsi blindati per raggiungere il covo del boss
Stessa scuola, carattere simile, scarsa propensione a fare inutile rumore e ancora più inutili, se non dannosi, spargimenti di sangue. Si chiama Emilio Di Caterino, è stato uomo di fiducia di Francesco Bidognetti e suo fedele esecutore di ordini. In cambio, avrebbe voluto un avanzamento di carriera: la nomina a capozona, magari di Villa Literno. Alla fine di aprile del 2008 si trovò, invece, alla corte di Giuseppe Setola e nella cabina di regia della stagione del terrore, che non approvava. Alla fine di agosto si defilò, riparando in Umbria. Alla metà di ottobre fu arrestato dai carabinieri e, la sera stessa, iniziò a collaborare con la giustizia. È l’unico pentito ad aver incontrato Michele Zagaria in tempi recentissimi, sostanzialmente fino alla metà del 2008. Ed è anche il solo ad aver avuto il rango per avvicinarlo. Dopo vari passaggi, però, e sempre accompagnato dagli intermediari. È lui a raccontare ai magistrati della Dda quanto fosse difficile, anche per gli affiliati, scoprire il rifugio del boss latitante. Giugno 2006: «Mi recai presso la casa di tale Giovanniello (Giovanni Zagaria, ndr) a San Cipriano, dove mi venne a prelevare un tale. Costui mi fece entrare nel bagagliaio della Micra di Giovanniello, il quale mi condusse a circa 5 minuti di distanza in auto, in un fabbricato al quarto piano nel quale vi era un appartamento con Michele Zagaria». Alla fine di luglio del 2006, secondo incontro, a casa di Giovanniello, per chiudere l’estorsione all’impresa che stava ristrutturando la caserma Sacchi, a Caserta: il 5 per cento dell’importo, pagate a rate di diecimila euro al mese. Il terzo incontro a San Cipriano, per sollecitare il pagamento della quota di ventimila euro sull’estorsione stagionale della raccolta dei cocomeri. Oreste Spagnuolo, un altro degli uomini della paranza di Setola, il primo ad affidarsi alla giustizia, con Michele Zagaria parlava per interposta persona: attraverso Antonio Basco, e attraverso il pc. Spagnuolo racconta in prima persona anche l’incontro tra Giuseppe Setola e il boss. Il killer, accompagnato da altri affiliati del suo gruppo (Alessandro Cirillo, Massimo Alfiero, Gianluca Bidognetti) fu «prelevato» da Antonio Basco e da Pasquale Pagano, il titolare del soccorso Aci di San Cipriano che aveva messo a disposizione un furgone. In un luogo intermedio del tragitto salirono «su un camion semi-cabinato, alloggiando nella parte posteriore coperta da un telo (…). Zagaria aveva una pistola 9×21 nuova di scatola, molto bella, ed era stato tentato di richiedergliela in regalo». In quella occasione tra i due gruppi ci fu una sorta di chiarimento: i bidognettiani avevano chiesto la tangente al distributore del latte Berna, a Castelvolturno, e al titolare della centrale a biogas di Cancello Arnone. Persone di Zagaria, alle quali non si poteva né doveva chiedere denaro. Si parlò anche dell’appalto per il porto del Villaggio Coppola «affidato alle ditte riferibili a Zagaria tramite suoi prestanome». Setola chiese di avere la sua parte, e gli fu concessa. Seguì la raccomandazione del boss di «non fare troppi casini e Setola gli aveva risposto che a casa sua faceva quello che gli pareva». Cioè, se necessario, sparava e uccideva. Era due anni prima delle stragi. Sulla faccenda della centrale di biogas si rischiò la guerra di camorra. Zagaria fece arrivare un ”pizzino” a Setola, minacciando la «rottura dell’amicizia». La risposta fu dettata al computer: «Disse che non aveva certo paura e che se voleva fare i morti, Setola era pronto a farli e non aspettava altro». In quel periodo Michele Zagaria rifiutò anche un omaggio inviatogli dal «cecato»: prosciutti, casse di champagne e una collana d’oro.
Rosaria Capacchione
Il Mattino il 02/04/2010
Modello Mafia: così così il padrino resta inafferrabile
Ragionano come i mafiosi, si dice da tanti anni. Sono come i Corleonesi, pervasivi e insidiosi. E cattivi. E sanguinari. E furbi come volpi, capaci di fare un passo indietro al momento giusto, di capire quando è il momento di fermarsi aspettando tempi migliori. Sono come i giunchi, di cui le paludi dei Mazzoni sono ricchissime. Che si piegano ogni volta che il vento si alza, senza spezzarsi mai. O non subito, almeno, perché come è arrivata la fine di Binnu Provenzano così finirà pure la lunga fuga di Michele Zagaria. Non azzarda paragoni sulle qualità criminali del capomafia e del capocamorra, ma Piero Grasso ci va assai vicino. Per l’arresto di parenti e amici il procuratore nazionale antimafia è arrivato da Roma, come ha fatto appena pochi giorni fa con la cattura dei fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro. E in conferenza stampa, accanto a Giovandomenico Lepore e Federico Cafiero de Raho, sorride soddisfatto: «È la prima tappa verso più approfondite indagini che porteranno alla cattura». Dalla Capitale gli fa da sponda il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, che pure accenna alla similitudine tra mafiosi e camorristi, e lui spiega nel dettaglio: «Mi sembra di riconoscere la stessa strategia di Provenzano dopo le stragi del 1992 e del 1993, con l’inabissamento, la scarsa visibilità sul territorio, la pace apparente. Abbiamo scoperto la rete che forniva l’appoggio logistico al latitante ma ora sappiamo anche molto di più sul suo modo di operare. Che, appunto, è lo stesso dei Corleonesi di Provenzano». Per esempio, le estorsioni: devono essere autorizzate esclusivamente da Zagaria. È lui a incontrare gli imprenditori, a imporre le tariffe (tra il 5 e il 6 per cento dell’importo degli appalti), a stabilire le modalità di pagamento. Al boss interessano solo le grandi opere, le grosse lottizzazioni, la costruzione di villaggi turistici o del porto nuovo, al Villaggio Coppola. Chiede soldi e lavori per le sue imprese, fornisce cottimisti e materie prime. Per meno di diecimila euro al mese non si muove. Nessuno è autorizzato a chiedere tangenti per conto proprio, neppure quelle piccole ai commercianti che sono sempre state la gratifica delle squadre locali di camorra. «Come in Sicilia – aggiunge Grasso – limita i contatti con i pregiudicati. Le estorsioni le chiudono altri imprenditori, che fanno da intermediari». ©
Il Mattino il 02/04/2010