Sarà stata la lunga veglia elettorale, con lo spoglio ripetuto due volte nella sezione numero 11 che ha costretto il paese a tirare l’alba. O l’ora di pranzo, ormai prossima. O magari un presagio, il sentore dell’imminente morte violenta, del sangue che stava per scorrere a un paio di chilometri in linea d’aria – eppure nel cuore del paese – il sangue di uno dei più fidati rampolli del primogenito del boss. Forse. L’aria a Casal di Principe, ieri mattina, aveva l’immobilità dell’attesa. La stessa dell’imminenza delle valanghe. Deserto il bar di corso Umberto, quasi all’angolo con la piazza del Mercato, dove solitamente i figli di Schiavone-Sandokan s’intrattengono per lunghissimi aperitivi e ancor più lunghe chiacchiere con gli amici. Distratto il capannello di persone che stazionavano a due passi dal Comune, ancora presidiato dai carabinieri e dai soldati che hanno preso in consegna le schede votate domenica e lunedì. Come se lo spoglio non fosse stato interrotto dai magistrati antimafia e sulle elezioni non pesasse l’ipoteca di un possibile scioglimento antimafia, il terzo in diciotto anni. I manifesti elettorali ancora tutti al loro posto, con il volto di Pietro Apicella che ha continuato ad ammiccare sorridente da quasi tutte le strade del paese: alla fine della conta è stato il più votato, come molti alla vigilia sospettavano, come in Procura avevano quasi previsto. Ma è bastato imboccare la superstrada, lasciandosi alle spalle i cartelli sei per tre, per incrociare movimento e rumore, con il suono acido e persistente delle sirene che si fermavano nei pressi del quartiere americano di Villa di Briano, in via del Castagno. È lì che Crescenzo Laiso è stato ammazzato: con quattro o cinque dei quattordici colpi esplosi da una pistola calibro 9, la stessa arma che il 19 marzo uccise il suo amico Salvatore Ricciardi. Lo hanno colpito in strada, dopo averlo costretto a scendere dalla Smart e a tentare un’inutile fuga a piedi verso i cancelli delle case abitate dai militari dell’Us Navy. Se non è la valanga preannunciata da Francesco Schiavone nella lettera ai figli inviata pochi giorni dopo la condanna definitiva all’ergastolo, è qualcosa che somiglia a un pericoloso smottamento, con il clan che incassa il secondo morto in un mese nel giorno stesso in cui i suoi «cavallucci» sono arrivati vittoriosi al traguardo del consiglio comunale. Assemblea sulla quale già pesano dieci avvisi di garanzia per associazione camorristica e voto di scambio. Crescenzo Laiso, 30 anni, era un giovanotto così, cresciuto all’ombra del fratello Salvatore. Insieme, erano l’ombra di Nicola Schiavone, servizievoli e volenterosi esattori di tangenti. Erano stati arrestati a luglio, poi erano stati liberati. Si racconta che cercassero di farsi spazio e che nelle ultime settimane si lamentassero dei soldi – lo stipendio del clan – che a casa non arrivavano più, neppure per pagare l’avvocato. Si racconta pure che avessero chiesto di gestire in proprio un pezzo di territorio, tra Trentola e Parete, per arrotondare le entrate e salire di grado. Non si sa quale sia stata la risposta di Nicola Schiavone, che da tre mesi si è dato a una volontaria latitanza – per timore della valanga, di sangue o giudiziaria che sia – e che in zona non si vede più. Neppure negli ambienti investigativi hanno certezze: qualcuno ipotizza la vendetta interna, qualche altro pensa che l’omicidio di ieri sia stato un vero e proprio atto di guerra, un messaggio di morte indirizzato al primogenito di Sandokan e all’intera famiglia del boss ergastolano. Proprio nel giorno della vittoria «politica»? Proprio nel giorno di una vittoria politica che però nasce destinata alla sconfitta? Probabile, anche perché l’amicizia con Laiso aveva già fatto escludere dalle elezioni amministrative quel Luigi Cassandro, candidato Udc a Trentola, che per le sue frequentazioni si era visto notificare un avviso orale in piena campagna elettorale. È per questo, per le continue azioni di forza dei giovani della famiglia Schiavone che appaiono delle autentiche provocazioni allo Stato, che gli analisti della Dda non escludono che la valanga si sia già staccata dalla cima del clan e che stia per travolgere un gruppo che appena la scorsa settimana ha perso anche la sua mente economica e informatica, quel Nicola Panaro che da anni gestiva la cassa delle estorsioni e le comunicazioni interne, ufficiale di collegamento con i latitanti e lui stesso latitante da sette anni. I due capi in libertà, Michele Zagaria e Antonio Iovine, sanno bene che il chiacchiericcio continuo sulle attività dei Casalesi non aiuta la loro condizione di primule rosse. Sanno anche che le sfide non sempre sono vincenti. E potrebbero esserci loro dietro l’altolà armato alla strategia degli Schiavone. Loro, o meglio Michele Zagaria, che mal sopporta la gestione del clan affidata al giovane Nicola per diritto di sangue e non per meriti di camorra. Zagaria, dunque, che per continuare i suoi affari sa che ha bisogno di silenzio e non di commissari antimafia.
Rosaria Capacchione
Il Mattino il 21/04/10