8.7 C
Napoli
giovedì, Aprile 25, 2024
PUBBLICITÀ

«Quelle mafie dimenticate»

PUBBLICITÀ


NAPOLI. Annalisa è clinicamente morta. La sua morte? perdonatemi se lo scrivo? non deve sorprendere. Ne conviene anche don Franco Rapulino, sacerdote in quella Forcella, da due secoli irredimibile “ventre di Napoli”. “Quello che è stato sarà e quello che si è fatto si rifarà”, ha detto ieri il prete citando la Bibbia. E ha concluso: “Questo significa, purtroppo, che non c’è niente di nuovo sotto il sole”.

È vero. Non c’è niente di nuovo sotto il sole. Annalisa è stata uccisa da gangster che regolavano, pistola in pugno, i loro conti alla Vicaria Vecchia dove la piccola chiacchierava alla fine del giorno, con la serenità dei suoi quattordici anni. La sua morte allungherà il nerissimo elenco, lungo decenni, di vite innocenti spezzate dalla guerra dei clan e il nome di Annalisa sarà ricordato accanto a quello di Simonetta, sette anni, uccisa in auto (1982) accanto al padre magistrato; Fabio, undici anni, che tornava a casa insieme alle sorelline (1992); Silvia che fu ammazzata all’Arenella mentre aveva per mano il figlio di dieci anni (1997); Valentina, dieci anni, che morì al posto del padre (2000)…

PUBBLICITÀ

Nulla di nuovo sotto il sole avrebbe potuto esserci perché quel che ha annientato la vita di Annalisa è “un male”, il gangsterismo urbano di matrice camorristica, che nessuno e niente se non le vittime, se non chi vive a Napoli e nelle province della Campania sembra ormai conoscere perché quotidianamente lo patisce e a quel male appare rassegnato.

Anche se sorprendersi sarebbe ipocrita, la morte di Annalisa liquida un luogo comune e ci ricorda quel che colpevolmente le élite politiche hanno nascosto nell’ultimo decennio e l’opinione pubblica nazionale ha rimosso (ammesso ancora che ci sia un’opinione pubblica non parcellizzata, frammentata dagli interessi regionali).

Il camorrista che doveva essere ucciso si è fatto scudo di Annalisa. Ha cercato di scoraggiare il tiro dei suoi assassini nascondendo il suo corpo dietro il corpo di Annalisa. Conviene affrontarlo il luogo comune perché ci sarà sempre un imbecille che oggi penserà, o peggio dirà, che “questa camorra non è più quella di una volta perché quella di una volta – sì – che aveva il senso dell’onore”. “Uomini d’onore” si dice, ieri come oggi, di questa gente di camorra e di mafia. Ieri come oggi, questi uomini sono vigliacchi che, in gruppo e forti e armati, minacciano, impauriscono, colpiscono il più debole e disarmato. Conoscono quest’unica legge: uccidi l’uomo che è più debole di te, inchinati a chi è più forte. Chi è più debole di un bambino o di un adolescente?

La morte di Annalisa ci rammenta ancora che accanto alla nuova, tragica emergenza della sicurezza nazionale – l’aggressione terroristica del fondamentalismo islamico – sono ancora vivi i fenomeni criminali che storicamente rendono buona parte del Mezzogiorno insicuro, che lo tengo prigioniero della sua arretratezza, che lo consegnano all’impossibilità di diventare “normale”.

Da quanto tempo non sentite parlare di camorra e di mafie? Sono poteri, gerarchie, network, strategie, affari, complicità, uomini, problemi scomparsi dall’agenda politica, eliminati dal dibattito pubblico. Camorra e mafie, e di riflesso le politiche che le contrastano, sono diventate voci così irrilevanti del discorso pubblico (da topos che erano) che risorse e uomini sono stati trasferiti altrove, a fronteggiare altre emergenze, e la stessa memoria del passato è stata rimossa. Si è avuta, in questi anni, la sensazione che si potesse chiudere la porta di quelle “stanze” e non sentire più la violenza che vi si consuma, le energie umane e sociali che vi si spengono, il futuro infausto che vi si costruisce.

Si è pensato che altre “stanze” – la percezione della sicurezza nella grandi aree urbane del centro e del nord – fossero ben più importanti di quei fenomeni criminali incancreniti nella carne viva della società meridionale. Ne è nata una “politica della sicurezza” che ha avuto altri obiettivi, altre procedure. Compreso che la sicurezza è una delle ragioni o paure che più decide del consenso e del voto, i governi dell’ultimo decennio (di destra come di sinistra) hanno elaborato criteri, priorità, prassi amministrative, disposto risorse, approntato tecnologie, mobilitato uomini che sistematicamente hanno lasciato in un canto la lotta alle mafie che richiede non solo polizie e giudici, ma dolorose decisioni politiche.

Evitato così di lavorare ai problemi di fondo, la “politica della sicurezza” dell’intero quadro politico nazionale si è nutrita di immagine, di azioni propagandistiche, per così dire, che avevano l’esplicito obiettivo di ridimensionare il senso di insicurezza degli italiani. Via le prostitute dalle strade. Poliziotti nei quartieri. Gran pubblicità ai dati letti con “interpretazioni di comodo, distorte o tendenziose”.
“Nel Rapporto sullo stato della sicurezza in Italia, presentato dal ministro dell’Interno il 15 agosto 2003 – scrive Mario Barbagli introducendo il recente Rapporto dell’Istituto Cattaneo sulla criminalità in Italia – si fanno confronti tra anni scelti deliberatamente per dimostrare che il numero dei reati è diminuito nel 2002 e nel primo semestre del 2003 oppure si ignorano i reati, come ad esempio le rapine nel loro complesso, il cui numero è aumentato nel 2002 e nei primi sei mesi del 2003”.

Se si parla di sicurezza, il vizio della deformazione non è del solo governo Berlusconi, il cui “patto con gli italiani” colloca al secondo posto la questione della sicurezza. Il 21 dicembre del 2000, il presidente del Consiglio Giuliano Amato dichiarò che “le rapine erano diminuite del 57 per cento rispetto al 1999? In realtà, le rapine erano diminuite soltanto del 4 per cento”.
Tra politiche dettate dalla necessità di raccogliere consenso e l’oblio degli storici fenomeni criminali che affliggono il Paese, chi può oggi piangere la morte di Annalisa come se quella morte potesse sorprenderci?


GIUSEPPE D’AVANZO – LA REPUBBLICA 29 MARZO 2004





L’ORRORE NEGLI OCCHI INNOCENTI


di SERGIO GIVONE


CHE cosa vedono gli occhi di un bambino su cui si abbatte una violenza troppo più grande di lui? Forse non vedono niente, un niente tanto più atroce quanto più smisurato e inconcepibile. Questo deve aver visto la ragazzina uccisa ieri a Napoli da un colpo di pistola, dopo che un camorrista si era fatto scudo del suo corpo per sfuggire all’aggressione di una banda rivale. Possiamo immaginare il suo disperato chiedere perché, prima ancora di chiedere aiuto, il suo impotente cercare un senso a quel che stava accadendo.
O forse, mostrarsi nella violenza degli adulti, così come i bambini la percepiscono, potrebbe essere qualcosa di assolutamente irreale. L’altro ieri il piccolo Khalil era alla finestra della sua povera abitazione nel campo profughi di Balata. Osservava uno scontro a fuoco fra israeliani e palestinesi. E noi vorremmo credere che per lui quello non fosse altro che un gioco. Ma siamo sicuri che non se lo immaginasse così, un gioco, solo perché gli era impossibile accettare l’insensatezza e l’assurdità delle immagini che gli correvano davanti come fossero un film? Non in fronte, ma alla nuca sarebbe stato colpito, come se lui stesse distogliendo lo sguardo dall’orrore.
Del resto i bambini mostrano un assoluto bisogno di trovare una qualche ragione a ciò che ragione non ha, pena uno smarrimento e un’angoscia che li travolgerebbe. Così accade spesso che le vittime inermi delle più gravi forme di violenza da parte degli adulti non trovino altro modo di sopportare l’offesa che gli viene fatta se non colpevolizzando se stessi, magari fino alle conseguenze estreme, fino al suicidio. Oppure accade (in base alla stessa logica) che a farsi portatori di violenza sino proprio quei ragazzini che più crudelmente ne hanno subito la dura legge. Non già per vendetta. Ma per giustificare, trasformando l’ingiustificabile in cosa normale, coloro che più li hanno fatti soffrire, a cominciare dai genitori.
Ed è ben questo il più tremendo atto d’accusa dei bambini nei confronti della violenza. Non appena la violenza investe i bambini, sia che incrudelisca su di loro, sia che li induca a suo strumento, cade il velo impudico in cui si nasconde o di cui si ammanta. La violenza appare quale essa è: ignobile, ributtante, non degna d’altro che del nostro “no, non deve essere”. Nulla come mettersi dalla parte dei bambini e guardare la violenza con i loro occhi (anche quando la commettono e non solo quando la subiscono) porta a smascherarla.
Né vale dire che c’è violenza e violenza. Indubbiamente l’assurdità (e la malvagità) della violenza che ha ucciso la ragazza di Napoli è palese. Non lo è altrettanto, essendo comunque sminuita dalla banale considerazione che la guerra è la guerra, la violenza che ha ucciso il piccolo palestinese. Tantomeno ci urta la violenza che inquina la nostra vita e di cui sono intrisi i rapporti fra le persone verrebbe addirittura da dire i rapporti fra le persone e le cose. Basta però gettare sulla violenza lo sguardo che vi getterebbe un bambino, perché su di essa venga a posarsi la luce più cruda e impietosa.
Limitiamoci a prendere in esame, fra tutte le forme di violenza, quella a noi più vicina, talmente vicina che stentiamo a riconoscerla: la violenza che si consuma in famiglia. E non intendo qui la violenza che grida vendetta, anche se nascosta, la violenza che ha rilevanza penale. No, è sufficiente ricordare la violenza che in misura minore o maggiore è in tutti e fa di ciascuno, una volta o l’altra, più frequentemente che raramente, il protagonista di sceneggiate quotidiane di cui non potrebbe che vergognarsi. Se solo osasse guardarsi come lo sta guardando quel bambino che è lì, silenzioso, forse triste. E riflettesse su quale traccia nefasta, profonda, indelebile, sta lasciando in lui.
Perché non provarci? C’è più sapere sulla violenza in quegli occhi sofferenti e muti che in un trattato di filosofia.



IL MESSAGGERO 29 MARZO 2004

PUBBLICITÀ

RESTA AGGIORNATO, VISITA IL NOSTRO SITO INTERNAPOLI.IT O SEGUICI SULLA NOSTRA PAGINA FACEBOOK.

PUBBLICITÀ

Ultime Notizie

Stangata per il clan Sorianiello, per il gruppo della ’99’ quattro secoli di carcere

Quasi quattro secoli di carcere. Una vera e propria mazzata per il clan Sorianiello, gruppo attivo nella zona 99...

Nella stessa categoria