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Giugliano, viaggio nella storia: Camposcino, il quartiere della rivolta

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Tante persone della nostra città, o per lo meno della sua popolazione antica, conoscono Tammariello. Singolare personaggio che pare calato da una altra dimensione per il suo esercizio costante di democrazia dal basso. Tammariello non le manda a dire. Tammariello pone all’attenzione dei consigli comunali, della popolazione, delle forze politiche, tematiche generali, mai personali, che spaziano dal diritto sacrosanto all’acqua, al diritto di vivere una vita dignitosa di tutti i fanciulli. E’ protagonista nella organizzazione di cene popolari in occasione di festività come di tornei di calcio per bambini nel campetto, da lui fortemente voluto, nello spazio postico al Conservatorio della buona morte. Tammariello è la quintessenza della democrazia. Non è mediata la sua espressione di pensiero, è fatta di messaggi scritti su tabelloni, di interventi in consiglio comunale, regolarmente soppressi dalla forza pubblica, da coreografiche manifestazioni per attirare l’attenzione sui temi della vita di ogni cittadino.
Eppure Tammariello non è una solitaria presenza all’interno del suo quartiere: l’antico Camposcino.
È lui, forse, l’ultima testimonianza di una ribellione connaturata con la gente di quel pezzo di Giugliano.
Tra i tanti episodi che nella storia della nostra città vedono gli uomini e le donne di Camposcino guidare rivolte per la mancanza di pane, per l’alto costo dei generi di prima necessità e cosi via, voglio soffermarmi su di uno di importanza, a mio avviso maggiore.
Il periodo compreso tra il novembre 1647 ed i primi mesi del 1648.
La rivolta di Masaniello è durata qualche giorno. L’abilità politica del vice re di Spagna ha diviso il fronte dei rivoltosi. La parte che teorizzava una forma di governo meno gravosa per i cittadini del regno di Napoli aveva colto al volo l’occasione fornita dal ribellismo popolare contro la introduzione di una ulteriore gabella voluta da Rodrigo Ponce de Leòn, il vice re. A questa fazione si era unita quella che parteggiava per il ritorno della casa di Francia. Ambedue le fazioni, dinanzi allo spontaneismo del popolano ed alla sua incapacità di gestire una sollevazione popolare, ne decretarono la fine per mano dei capi quartieri, le ottine, nelle quali era divisa la città. E sin qui nulla che ci riguardi o per lo meno riguardi il nostro specifico interesse.

Qualche mese dopo l’episodio del pescivendolo di Amalfi e della moglie Bernardina una ulteriore rivolta fu appoggiata dalla Francia. Un corpo di spedizione, guidato da Enrico di Lorena, duca di Guisa, si accampò a Giugliano. Parliamo di migliaia di soldati. All’inizio le cose non dovettero andare proprio in modo idilliaco. La improvvisa e spropositata richiesta di generi alimentari fece schizzare in alto i prezzi e provocò il verificarsi di continui episodi di borsa nera e contrabbando. Poi l’aiutante di campo del Guisa, conte di Modena, Spirito di Remond, unitamente agli eletti del popolo di Giugliano, Michele d’Orta, Pietro Felicella e Francesco Pragliola, mette ordine nella faccenda riportando la collaborazione tra la popolazione e i comandi francesi sul campo della attività bellica.
E si! Attività bellica!

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A qualche miglio c’era, e c’è ancora, Aversa. E quando c’è da scontrarsi con l’odiata esattrice di tasse e gabelle i giuglianesi, sostenitori della tesi della usurpazione compiuta dagli odiati normanni ai danni del casale longobardo di Giugliano, non si tirano indietro, e Aversa è schierata con la Spagna. Duecento anni prima le parti erano invertire: Aversa con la Francia e Giugliano con gli Aragonesi.
E quindi si parte alla carica. Le milizie locali guidate da rappresentanti delle famiglie Rosso e Romano, ambedue di Camposcino, ed ecco l’aggancio, partecipano agli scontri per la conquista dei depositi di grano nella città di Napoli, fanno agguati alle truppe spagnole che portano rifornimenti alla citta assediata attraversando la pineta di Licola, vanno all’assalto della città di Aversa difesa da truppe guidate dal Vescovo della diocesi.
Insomma una partecipazione alla guerra in modo concreto se è vero che l’uso di tornarsene dalle battaglie con le teste dei nemici uccisi poste sulle picche divenne una caratteristica che indicava la presenza di giuglianesi tra le compagini coinvolte nella battaglia.
Ma non tutti erano dalla stessa parte. Dovette essere una guerra anche interna alla città.
Uno dei sacerdoti della parrocchia di san Marco, un certo Magliola, doveva essere troppo filo spagnolo o troppo inviso alla popolazione bisognosa, tanto è che un bel giorno lo vanno a cercare, lui capisce che le cose si mettono male e cerca di scappare. Inseguito viene portato nello spazio antistante la chiesa della Annunziata e impiccato.

Un gesto estremo indicatore sia del clima che dei rancori che covava da tempo.
Come fini?
Come sempre accade: il duca di Guisa se tornò a casa con poco danno mentre le genti che avevano visto in lui la soluzione dei problemi esistenziali rimase con le pive nel sacco, un poco come sempre nella storia.
Lo scontro finale a Giugliano lo si ebbe in Piazza Annunziata dove i filo spagnoli, guidati da un Taglialatela, presero a schioppettate i filo francesi ferendone alcuni e uccidendo il capo in testa, tale detto “ il duca” .
È uno dei tanti episodi che hanno visto la gente di Camposcino lottare per i diritti dei diseredati.
Una costante di lotta oggi rappresentata dal nostro amico Tammariello.
Si spera che maggiore successo abbiano le sue lotte, perché sono lotte democratiche che meritano maggiore attenzione da parte di chi deve ricordare che per un momento storico occupa un posto di rilievo nella conduzione amministrativa ma che ha di fronte un rappresentate della storia antica e della sua più alta forma di partecipazione: la democrazia.

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