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lunedì, Giugno 17, 2024
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I beni di Sandokan che lo Stato non usa

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Il fuoco, per bruciare gli infissi in legno pregiato e gli stucchi alle pareti. L’acqua, per far imputridire le fondamenta delle case blindate. E la sistematica demolizione di pareti, tetti, giardini, piscine. E la morte programmata dei capi di bestiame, affamati e privati della profilassi per le infezioni più banali. Dei milioni di euro confiscati alla camorra – case e aziende agricole – allo Stato è rimasto spesso soltanto il simulacro, il vuoto e rabberciato contenitore. Sono finiti così, in malora, i beni sequestrati alla famiglia di Francesco Schiavone e ai gregari del capo dei Casalesi. Immobili e imprese che il Demanio ha preso in consegna accontentandosi del mero valore dominicale del terreno. Accadde, per esempio, nel 2002 con l’azienda Selvalunga, allevamento bufalino in territorio di Grazzanise, gioiello di famiglia che produce latte distribuito ai caseifici dei Mazzoni. Come per quasi tutte le proprietà degli imputati del processo Spartacus, su quell’azienda gravava un doppio sequestro: quello penale, disposto dal gip nell’ambito del processo, e quello delle Misure di prevenzione. Fu questo iter a concludersi per primo, a febbraio di quell’anno. Tra la fine di aprile e i primi di maggio, mentre la Corte di Assise predisponeva gli atti per consegnare il bene al nuovo proprietario, lo Stato, le bufale inziarono a morire di fame e di brucellosi. Il latte non veniva più ritirato, i furgoni di chi osava contravvenire all’ordine di boicottaggio vennero incendiati. L’azienda Selvalunga, che al momento del sequestro – il 5 dicembre del 1995 – valeva dieci miliardi di lire, nel giro di poche settimane era diventata di fatto un suolo per uso agrico del valore di centomila euro. Su quel terreno, transitato tra i beni del Comune di Grazzanise e sul quale resistono le stalle e i silos per il foraggio, non è stata mai avviata l’opera di riconversione né esistono, al momento, progetti per il recupero produttivo del sito. Fa parte dello stesso pacchetto di confische, quello del 2002, la casa di Francesco Schiavone, al civico 14 di via Bologna, a Casal di Principe. Vi abitano la moglie del boss, Giuseppina Nappa, e i suoi figli. Accanto, in uno stabile attiguo – ma con l’ingresso e la scala in comune – c’è la casa del genitori, Teresa e Nicola. Quell’ingresso condiviso è stato sufficiente a giustificare l’inerzia del Comune che, per cinque anni, e nonostante le denunce, non ha mosso un dito per entrare in possesso di quella che era diventata una sua proprietà. Cinque anni sono troppi, ha sottolineato ieri il segretario della commissione antimafia, Tommaso Pellegrino: «È un fatto gravissimo, invierò subito una interrogazione parlamentare urgente al ministro dell’Interno Amato e al ministro della Giustizia Mastella affinché si possano individuare le responsabilità di quanto accaduto. Avevo già sollevato l’attenzione della commissione su casi analoghi. Il fatto che la villa rimanga nella disponibilità della moglie di Schiavone, boss tra i più pericolosi d’Italia, è un fatto estremamente grave che contribuisce a dare ai cittadini un segnale pessimo di denegata legalità e giustizia. Chiederò un incontro con il prefetto di Caserta affinché vengano individuate le responsabilità di quanto accaduto e in commissione antimafia, dove sono già in corso apposite audizioni, lavoreremo per accelerare la revisione della legge sulla confisca dei beni, la cui applicazione è troppo spesso ostaggio della burocrazia».


ROSARIA CAPACCHIONE – il mattino
21/03/2007

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