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venerdì, Aprile 19, 2024
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IL COMMENTO: Le nostre periferie

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di Eugenio Mazzarella



Scugnizzi. È un altro mondo, secoli fa, l’immaginario e il ricordo degli scugnizzi del neorealismo. Sciuscià piegati, piccoli, poco più alti della cassetta, a lustrare scarpe per uno spicciolo, o a morire su un carro armato tedesco, lanciando una molotov per un’idea più grande di loro, il riscatto della loro città, che però intuivano che era per loro. Difficile non commuoversi, mentre scorrevano quei fotogrammi. Ma le «Quattro giornate» sono lontane. Oggi sono una piazza, e così sia. Oggi se vuoi commuoverti, se te lo puoi permettere, se non hai troppa paura, ti puoi commuovere solo per uno scugnizzo ammazzato.
Per uno scugnizzo che è poco più di un bambino, su uno stradone di periferia. Lui di 13 anni, il complice di 17, ucciso da un poliziotto che tentava di rapinare. È tutta in questi numeri la tragedia. Ma si può ammazzare un bambino per un tentativo di rapina? La risposta è lì, sullo stradone dell’Asse Mediano, sulla «bretella» di Melito. Si può, perché accade.
Si può, se sei solo, se anche se fai il poliziotto hai paura, e spari ad un ragazzino che invece dovresti difendere – in una città normale, in un quartiere normale. Ma Scampia, Napoli, periferia, è normale? È normale che un bambino e un ragazzo vadano in giro su un ciclomotore rubato, Beverly: che cos’è? una citazione da Los Angeles? e Liberty, il ciclomotore da rapinare, questa è la libertà per cui morire oggi a tredici anni? A Scampia è normale. In molte periferie è normale, siamo onesti. Non solo a Napoli. Ma a Napoli un po’ di più. A Napoli a tredici anni, se hai il padre in galera, se ha avuto sfortuna già prima di te, se il quartiere è quello, se la scuola è una formalità da sbrigare in fretta, se pure ci vai, tanto non serve a niente, se un lavoro è solo in nero, quando c’è, se per cavartela ti devi prendere pure i rischi, e devi imparare in fretta, a Napoli a tredici anni puoi anche morire come in un videogame dell’orrore: solo che la partita era una sola, e non te la puoi giocare di nuovo, scegliere un altro percorso.
Anni fa, analisi rimaste inascoltate di importanti documenti della Chiesa proposero una definizione dei contesti sociali a forte rischio di generare devianza come «strutture di peccato», avvertendo che la nostra società ne era minata alle fondamenta, e che era urgente porvi riparo. Ecco: le nostre periferie sono in se stesse «strutture di peccato». Teatri quotidiani di disagio, fino alla tragedia, dove riescono ad avere tutti torto. Persino le pietre, le strade, le piazze. Chi c’era, e chi non c’era, quelli che, come noi, hanno solo la fortuna di stare da un’altra parte. Intanto, siamo qui a commentare, ancora una volta a Napoli, ciò che non vorresti commentare mai: la morte assurda di un ragazzino di tredici anni. Forse ci vorrebbe altro che parole. Forse ci vorrebbe che il lavoro lo si portasse qui, e non dove costa meno. Forse ci vorrebbe che nelle periferie sulla scuola – che non è solo una targa sulla porta, cancelli dappertutto, e insegnanti mandati allo sbaraglio, difesi solo, e non sempre, dall’«abito» che nonostante tutto ancora indossano per il quartiere – si facesse di più, le «risorse» si trovassero. Forse ci vorrebbe che i modelli proposti ai ragazzi non fossero solo i soldi in tasca, e via, presi comunque. Forse ci vorrebbe qualcosa in più che il poliziotto di quartiere: opportunità che non diano alibi neppure alla disperazione. Forse ci vorrebbero vent’anni così su queste cose per non perdere la speranza. Non è possibile che a Napoli si dia anche il caso, a tredici anni, che se sei fortunato finisci a Nisida, esemplare struttura di recupero, e se sei sfortunato sottoterra.
E mentre mastichi queste parole, mastichi l’amara verità che non puoi perdere, non devi perdere la speranza, come all’uscita di «Scugnizzi» dice il presidente Ciampi, e non la puoi perdere proprio per i giovani, anche se uno di loro, quasi un bambino, se ne è andato via dal futuro sulla strada per Melito.



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IL MATTINO 6 GENNAIO 2003

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