Anche in questo caso non c’è stata la svolta sperata e ha prevalso il quieto vivere. Due giorni dopo l’omicidio di Francesco Gaito, il tabaccaio di 47 anni ucciso a Sant’Antimo a pochi passi da casa e dal proprio negozio, sul taccuino degli inquirenti ci sono pochi indizi, poche testimonianze. Lo conferma il comandante provinciale dei carabinieri, il colonnello Gaetano Maruccia: «Un omicidio del genere avrebbe dovuto provocare uno scatto d’orgoglio che non c’è stato, ancora una volta ha prevalso l’omertà, il ripiegamento nel quieto vivere. L’assassinio di quel commerciante avrebbe dovuto determinare una partecipazione corale, massiva che non ho visto. Eppure – aggiunge il comandante – il delitto è stato consumato in una piazza attraversata da decine di persone, che non possono non aver visto qualcosa». Poi un appello: «Chi sa parli, anche se in modo non ordinario, anche se con una ”soffiata”, con una telefonata anonima. Chi ha visto qualcosa, un numero di targa o qualsiasi altro particolare utile, faccia il suo dovere». Una premessa doverosa in un’inchiesta che va comunque avanti. E che fa comunque emergere elementi di novità. Le indagini sono condotte accanto all’Arma, anche dagli uomini della squadra mobile e sono coordinate dal pool anticriminalità predatoria del procuratore aggiunto Paolo Mancuso. Nel fascicolo spuntano un identikit, una pista e una precisa ricostruzione della dinamica dell’omicidio di Francesco Gaito. A uccidere il commerciante sono stati due uomini dal viso semicoperto dal cappellino con visiera e dagli occhiali da sole. Avevano jeans e magliette sportive e a maniche lunghe. Un terzo complice li attendeva probabilmente in auto e li ha trasportati via da Sant’Antimo dopo il colpo fallito. Ieri, sul posto dell’omicidio, c’è stato un nuovo sopralluogo degli inquirenti ed è stato trovato un proiettile che si era incastonato nell’asfalto. Probabile che si tratti del secondo colpo esploso dagli assassini, assieme a quello che ha colpito alle spalle e a bruciapelo il quarantesettenne. Il ritrovamento del secondo proiettile offre una conferma della condotta criminale degli assassini: hanno premuto due volte il grilletto, forse per vendicarsi del tentativo di reazione del commerciante, forse in un raptus di rabbia dovuto al fatto che l’assalto era sfumato. La banda ha agito di lunedì mattina alle 9,45, in piazza Matteotti, a due passi da via Roma e dalla centralissima piazza della Repubblica, dove l’uomo gestiva una tabaccheria assieme ai fratelli Ciro e Giulio. Probabile che i due killer abbiano agito su commissione, con la tecnica del cosiddetto filo di banca, grazie a un informatore di Sant’Antimo che deve aver segnalato le abitudini della famiglia Gaito ai due assalitori. L’inchiesta resta pesantemente condizionata dal clima di omertà abbattutosi sul Comune dell’asse mediano, anche se qualche particolare in più sulla dinamica della rapina è stato offerto agli inquirenti. I due assassini hanno atteso il tabaccaio in un angolo di piazza Matteotti, confidando della mancanza di telecamere e dell’orario di chiusura settimanale di alcuni negozi. «Lo hanno acciuffato», è l’espressione usata in sede di ricostruzione, ad indicare l’agguato riservato al malcapitato commerciante. Alla sua prima reazione, sono partiti gli spari. Poi, i due killer sono scappati in direzione via Cardinale Verde, usando come via di fuga una strada costeggiata da decine di palazzi e condomìni e scappando poi verso l’asse mediano. Verso i quartieri di Secondigliano e Piscinola, o verso il Comune di Melito. Due giorni dopo l’omicidio, omertà e paura proteggono i killer. A pochi metri dal luogo dell’agguato, accanto alla banca, qualcuno ha posato a terra un mazzo di fiori, quasi «nascosto» dalle auto in sosta. Davvero troppo poco per un uomo che lascia una moglie e due figli di tredici e diciotto anni.
LEANDRO DEL GAUDIO
I banditi avevano già seguito la vittima
Sant’Antimo. I quartieri Piscinola, Secondigliano, Miano, Marianella. Ma anche i comuni di Melito e Arzano, incastonati tra le rampe dell’asse mediano. È qui che ruotano le indagini sull’omicidio di Francesco «Franco» Gaito. È nelle rampe e dagli edifici dell’area metropolitana che l’espressione «fare una macchina» assume un significato a senso unico. È il gergo usato dai rapinatori, intercettato decine di volte nel corso delle conversazioni di chi si appresta ad entrare in azione, arma in pugno per assaltare la tabaccheria, il benzinaio, la banca di turno. Un’inchiesta condotta in queste ore dai militari della compagnia di Castello di Cisterna, condotte dal maggiore Fabio Cagnazzo (ma anche dalla squadra antirapina della polizia del dirigente Massimo Sacco) che stanno passando al setaccio gli ambienti della cosiddetta delinquenza spicciola. Si parte dalle immagini delle telecamere sparse sull’area territoriale. I pochi indizi forniti dai testimoni vengono raffrontati con alcuni tracciati conservati dal servizio di videocontrollo del territorio. Le speranze sono abbastanza esili, specie in uno scenario di scarsa collaborazione con le forze dell’ordine. Il trend di rapine nella zona di Sant’Antimo è cresciuto del venti per cento negli ultimi tempi. Ma al di là della quantità, c’è un problema di qualità. La rapina provata a carico di uno dei tre fratelli Gaito – è solo un caso che sia stato aggredito Francesco e non un altro dei due fratelli – era stata studiata a tavolino da persone che conoscono il territorio. Un basista, uno della zona, che conosceva le abitudini del tabaccaio e che aveva studiato il tragitto percorso da piazza della Repubblica fino a via Cardinale Verde. Un basista che aveva fornito anche alcune indicazioni utili. La prima: il lunedì l’importo dell’incasso depositato dai tabaccai in banca raggiunge anche quota diecimila euro. La seconda: il lunedì il fruttivendolo ambulante che in genere apre bottega in piazzetta Matteotti (quella dell’omicidio) spesso fa festa. Ecco il posto buono per colpire. Dati preziosi nelle mani di chi è abituato a «fare la macchina» a organizzarsi in auto assieme ad alcuni complici partendo dalle palazzine popolari dell’area a nord di Napoli.
l.d.g.
«I malviventi hanno sparato perché li aveva riconosciuti»
«Gli hanno sparato perché li aveva riconosciuti. Provate a ragionare: solo gente del luogo poteva sapere quando i tre fratelli Gaito andavano in banca con i soldi. E non sperate nei testimoni: in questo paese chi vede non parla. Si guardi intorno: a ventiquatro ore dall’omicidio tutti già si occupano di altro». Francesco Schiassi, medico, è il titolare della farmacia che da sempre sta di fronte alla rivendita dei fratelli Gaito. È anche il presidente di un’associazione («apolitica», tiene a precisare) che raggruppa molti commercianti. «Negli ultimi vent’anni Sant’Antimo ha subìto una valanga di commissariamenti. E qualche amministrazione che è durata solo poche settimane. È un paese quasi mai governato, ben perimetrato ma chiuso in se stesso come dentro a un labirinto. Siamo diventati dormitorio della grande metropoli. Qui non c’è ricchezza. E sono svaniti i valori forti. Dunque, perché meravigliarsi se nessuno testimonia e tutti si fanno i fatti propri?». Schiassi conosce bene questi luoghi. Si capisce che li ama. E perciò ci va giù duro: «Lasci perdere i soliti bla bla. La verità è che qui manca del tutto il controllo del territorio. Oltre che dai clan locali, siamo invasi da pakistani, bangleshi e nigeriani, che hanno ormai conquistato il predominio sul mercato della droga. Il pizzo? Si è evoluto. Ora vola alto, è addirittura di livello imprenditoriale». In piazzetta Matteotti nessuno ha visto niente. Lunedì mattina, cioè negozi chiusi. Non tutti, però. Il Tabacchi Brunaccini, per esempio, è a un passo dall’omicidio. Racconta Antonio, il titolare: «Il povero Franco lo vedevo quasi tutte le mattine alle sei, quando apriva il negozio e passava davanti alla mia bottega. Sì, ho sentito un colpo, molto più forte di un colpo di pistola. Ma nessuno ho visto. Soffro di una disfunzione atriale, conseguenza delle troppe rapine: ne ho subìte sette. Cinque in negozio e due in strada». E il figlio Giuseppe, che gestisce più in là un negozio di giocattoli: «A me l’ultima rapina è toccata a marzo scorso. Ma la mattina del 24 dicembre mi avevano già rapinato ottomila euro mentre uscivo dalla Banca popolare di Napoli, la stessa dove l’altra mattina era diretto il povero Franco». E Antimo, che fa il falegname: «Se ho visto i killer? No, niente. Anche a me hanno rapinato ottomila euro, mentre uscivo da quella banca». E un altro tabaccaio, che si chiama Russo e annuncia serrate e marce su Roma: «Io non ho visto nulla. Però sono nella media: finora ho subìto tre rapine. E due furti». A ridosso della piazzetta, lavori in corso e impalcature. Sopra, c’è un muratore: si chiama Antimo Puca. È uno dei potenziali testimoni convocati dai carabinieri. «Sì – racconta – mi hanno tenuto in caserma dalle undici di mattina fino a sera tarda. Con me c’era mio figlio Giovanni. E pure il macellaio che ha bottega lungo via Cardinale Verde. Stavo lavorando sull’impalcatura quando ho sentito i due spari. Mi sono girato verso la strada e ho visto quel poveretto a terra, e la gente che accorreva gridando. Giovani in fuga? No no. Mio figlio stamattina non è venuto a lavoro. Per la paura che si è preso. Ma che vi credete, che siamo eroi? In paese c’è troppa gente violenta. Che prima ti ammazza e poi te lo manda a dire. E adesso scusate tanto, ma sono qui per lavorare…».
ENZO CIACCIO
CUMULI DI RIFIUTI SUL LUOGO DEL DELITTO
Non si vede neanche un fiore, qui dove quei balordi hanno ammazzato Francesco Gaito. E nemmeno nelle vicinanze. Anzi in piazzetta Matteotti, proprio dove il tabaccaio è stramazzato al suolo in agonia, cumuli di immondizia non raccolta tracimano fuori dai cassonetti umidi. E invadono il selciato che conserva ancora tracce del povero corpo senza vita. È un miscuglio maleodorante. Volgare. Blasfemo. Un segno di incuria. Imperdonabile. Che razza di giorno dopo. E di fiori non si coglie traccia neppure nei dintorni della rivendita in piazza della Repubblica, quella dove il tabaccaio ha lavorato per una vita. Qui, un bigliettino quasi invisibile spiega: «Chiuso per lutto», al centro della saracinesca abbassata. Solo nei pressi della Banca popolare di Napoli, quella dove la vittima dell’agguato era diretta per versare i settemila euro delle giocate, qualcuno ha lasciato un mazzetto di fiorellini scoloriti. È lì, giace a terra abbandonato in un angolo. Come se chi lo ha portato abbia poi provato vergogna del suo pietoso gesto. Sant’Antimo, 40mila abitanti. Il giorno dopo è un giorno come gli altri. Senza emozione. Cioè, pieno di niente. Come piace alla camorra. Tempo fa qui si è scoperto che nel cortile di una scuola media si coltivava droga a go go. C’è chi lo chiama «il paese che ammazza le donne». Indovinate perché. Lucia Ponticello. Imma Capece. E Vincenza Visone, detta Cinzia, uccisa che aveva solo 17 anni perché incinta. E pure i bambini. Alberto Signorelli, 14 anni, venne ammazzato e sotterrato in campagna perché aveva visto un carico d’armi. Maledetto Asse Mediano, che è qui a due passi e da decenni s’ingoia torme di guaglioni con le mani ancora sporche di latte e polvere da sparo. I Puca, i Verde, i Ranucci. Bande armate. Droga e pistole. Mani alla gola. E alla tasca. In paese non si scherza. Se vedi, guai a te se lo dici. Se non vedi, auguri e buon Natale. Stamattina i carabinieri presidiano le strade. Ma è l’unico segno da cui si desume che qui ieri è successo qualcosa di assai grave. Per il resto, un giorno come gli altri. Cioè, pieno di niente. E neanche un fiore. Né un gesto di pietà. O di ribellione ai prepotenti. E in piazza, a cavalcioni in fila indiana sul muretto intorno ai giardinetti, giovani e anziani chiacchierano annoiati. Dell’omicidio? Ma no, che andate a pensare. Loro discutono di altro. E quei giovani sembrano già rassegnati. Cioè vecchi. E quei vecchi non incutono tenerezza. Né rispetto. E chiacchierano lenti. Di tutto. Anzi, di niente. E aspettano che si consumi l’ora di pranzo. Come se niente fosse. Come se un innocente fosse morto per niente. Noli timere salus tua, c’è scritto sulla facciata della Chiesa Madre. Che però ha i cancelli chiusi. Come la chiesa di san Francesco, che sta a un passo dal luogo dell’omicidio. In via De Nicola, dove abita la famiglia Gaito, il dramma che si va consumando resta perciò tutto privato. O al massimo esteso alla cerchia degli amici. Nel salotto, sedute in girotondo come davanti al braciere, le donne piangono con discrezione. Anna, la cognata, scandisce a voce alta: «Ma perché non li hanno ancora presi, perché? Ma perché chi ha visto ancora non parla?». E Patrizia, la moglie, si dispera supplichevole: «Sono stata al Policlinico – racconta – ma il mio Franco non me lo hanno fatto vedere». Antonio, 18 anni, è lì racchiuso in un silenzio da brividi. Sfugge agli sguardi di tutti, per adesso. Maria, la sorellina di 13 anni, se ne sta avvinghiata alla mamma. E non parla. Dramma intenso, come è naturale che sia. Ma tutto domestico. Perché il paese non lo vive. Né tantomeno lo condivide. Racconta il sindaco, Francesco Piemonte: «Nessuno deve scappare da Sant’Antimo. Il giorno dei funerali sarà lutto cittadino. E per domenica convocherò in piazza il consiglio comunale col questore, il prefetto e i sindaci dell’area: qui occorre una più intensa presenza delle forze dell’ordine e un’azione forte dello Stato. Ho proposte da fare, ascoltatemi». Sotto casa, in via De Nicola, Angelo Gaito – il fratello maggiore della vittima – osserva avvilito: «Testimoni? Non ne ho notizia. Non mi meraviglia: qui tengono paura. Eppure, abbiamo sempre fatto del bene a tutti. Onesti e delinquenti».
ENZO CIACCIO
IL MATTINO 10 OTTOBRE 2007