Ci risiamo. A dire il vero, la cantilena non è mai finita. Sono anni che il motivetto si ripete sulle colonne, cartacee e on line, di Libero. Si tratta di pressapochismo, di superficialità, di un lavoro che anche un quotidiano locale da una manciata di visite giornaliere (non ce ne vogliano…) censurerebbe. Si tratta di razzismo. Senza se e senza ma. L’aggravante, da qualche tempo, è rappresentato dalla maschera con cui Libero prova a nascondersi dalle accuse legittime che quotidianamente gli piovono addosso. Per Mattia Feltri, il direttore, è una scelta editoriale. In sostanza, si punta su un lessico sgarbato per raccontare verità parziali immerse in un accozzaglia di inesattezze. Razzismo. Questo è e questo rimane. Ed è anche mediocre il lavoro giornalistico di chi annaspa, battendo sulla tastiera pensieri che stanno assieme solo per chi non sa di cosa si parla. Ossia, solo per i razzisti. Come loro.
Libero e il razzismo verso il meridione: una storia d’amore
Una delle prime pagine che più ha fatto discutere recentemente titolava “Piagnisteo napoletano”. Il tutto era introdotto da un occhiello sottolineato di rosso: “Il solito vecchio vizio”. A cosa si riferissero, probabilmente, lo sanno solo i redattori e quella manciata di lettori disseminati lungo lo Stivale. Anzi, nel Nord dello Stivale. Perché, stando ai dati sulle vendite, il quotidiano di Vittorio Feltri vende sempre meno (flessione secca del 33,2% sulle vendite del 2016) e principalmente al Centro-Nord Italia. Sui suoi introiti ci sono molte ombre. Secondo Pier Luca Santoro, esperto di marketing, comunicazione & sales intelligence, Libero è finanziato attraverso «Un bel giro di carte pur di spillare soldi allo Stato. Aspetto che sommato ad una linea editoriale che dal caso betulla ai titoli razzisti e xenofobi rende ancor più vergognosa, se possibile, l’erogazione di fondi a favore di questa testata».
L’antimeridionalismo funzionale di Libero
Quindi, se non si vende, perché non puntare su romantici dell’antimeridionalismo radicale? Et voilà. Giù a valanga con teorie bislacche che sono insulti alla storia e alla cultura dei popoli. Napoli è l’ingresso dell’Inferno. La Calabria è il Medio Oriente (nell’accezione negativa del paragone, ovviamente). La Sicilia è popolata da soli mafiosi efferati. Magari, come cantavano allegoricamente gli Skiantos in “Italiano terrone che amo”, «Con la catena d’oro, la pasta al pomodoro, tondo basso e moro, di sicuro un uomo vero». Solo che gli Skiantos erano un gruppo allegorico e provocatorio, non un quotidiano che dovrebbe diffondere informazione e cultura. Nella prima pagina di ieri, al centro (non a caso), Libero riassume il particolare momento di criticità del Bresciano con un titolo che più insensato non si poteva scegliere. “La Lombardia sembra Napoli: 4 omicidi in un giorno“. Come se Napoli fosse una zona di guerra da migliaia di morti l’anno.
L’autrice dell’articolo sulla prima pagina di Libero è napoletana
Tuttavia, l’amaro in bocca non viene a causa dell’ennesimo teatrino di Feltri e soci. Bensì, l’amaro in bocca viene leggendo il nome del giornalista autore dell’articolo di cui sopra. O meglio, della giornalista. Lucia Esposito. Su LinkedIn si legge che è napoletana, laureata all’Università Orientale di Napoli in Scienze Politiche. Un master presso la Scuola di Giornalismo di Urbino con tanto di lode. Evidentemente, alla collega non farebbe male una ripetizione di “giornalismo applicato”, di storia passata e contemporanea. Ne gioverebbe certamente la sua onestà intellettuale. Sarebbe interessante capire cosa gli sia passato per la testa quando ha riletto il suo articolo con quel titolo. Cosa voleva ottenere? Gli elogi del suo direttore bergamasco? I like del popolino nostalgico antimeridionale? O un premio di redazione? Chissà, magari il premio in palio era un biglietto treno per tornare a casa. A Napoli. Sorridiamo.