La supremazia della plebe. Questa è Napoli, con tutti i malanni che ne derivano. Ne è convinto il prof. Luca Meldolesi, ordinario di Politica economica alla Federico II. «Una plebe — dice — che ha pensato che tutto si potesse ottenere in maniera facile; adusa alle ‘‘scorciatoie’’».
Una plebe che, da un lato, ha dato la stura al malcostume sfociato nell’illegalità e poi nella criminalità più feroce; dall’altro, ha annientato ogni possibile volontà di cambiamento, schiacciando la classe politica nell’immobilismo.
Esperienze sul campo e riflessioni tutte contenute nel suo ultimo libro Il nuovo arriva dal Sud (per i tipi di Marsilio, 20 euro), una ‘‘summa’’ del suo lavoro di professore che ha avuto come direttrice lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Ma attenzione, le sue ricette, proprio qui, in Campania e a Napoli, non hanno attecchito. «Una cosa importante di questo lavoro è che l’ho ambientato quasi tutto a Napoli, ma l’ho messo in pratica nelle altre regioni del Sud. Perché qui ho trovato una specie di reazione di fronte al cambiamento sociale ed economico; democratico ed istituzionale. E non credo perché mi riferivo ad una parte politica piuttosto che a un’altra. Mi è stato più facile stare al governo per otto anni (presidente del Comitato per l’emersione dal lavoro non regolare, esecutivo Prodi, anno 2007. Prefazione di Giuliano Amato ndr) e poi realizzare qualcosa in Calabria, Puglia e Sicilia. In Campania anziché trovare un sistema politico più aperto, ho trovato un muro».
Perché è successo questo?
«Ho sempre cercato di lavorare issando la bandiera della legalità, ma l’ambiente non ha accettato questo. L’ho riscontrato anche con persone amiche, conosciute. Ad un certo punto sono cambiate, non erano più disponibili. Per poterti accettare devono ‘‘coinvolgerti’’ e io non ho mai sottoscritto un tale pactum sceleris ».
Se questa è la diagnosi qual è la terapia?
«Procediamo ad una prognosi. Prendiamo il caso di Gomorra, di Saviano: mi ha svelato una cosa che sapevo ma sulla quale non ho riflettuto abbastanza: c’è un’attrazione della camorra molto forte anche sugli imprenditori. E mantenersi su un livello diverso significa operare uno sforzo molto forte. Ho visto imprenditori che hanno cercato di nascondersi, di sommergere il proprio reddito per non essere colpita. In Gomorra la meccanica dell’attrazione è molto chiara. I casalesi li ho conosciuti 15 anni fa, il sindaco mi chiamò; ci andai e vidi un Comune con i sacchetti di sabbia. Si chiese all’Ue risorse per un progetto sulla sicurezza, non se ne fece più nulla».
Per rimanere puliti si tende a dissimulare.
«Certo, ma c’è anche chi accetta di entrare nel gioco».
Questa è una delle criticità del territorio.
«Ho individuato tre flagelli: il corporativismo e faccio l’esempio dei disoccupati organizzati; all’inizio era un movimento poi è diventata un’associazione corporativa. Poi vedo clientelismo, e questo lo conosciamo; infine, corruzione e illegalità. Tutti vasi comunicanti ».
Dicevamo che occorre una terapia. D’urto?
«Occorre intervenire nelle dinamiche per cambiare le cose. Capire come uscirne e comprendere perché siamo arrivati a questo punto. A me è piaciuto molto realizzare questo dialogo tra Napoli e il Sud; se vediamo una cartina telefonica, ogni regione meridionale è legata a Roma e Milano, ma fra loro non si parlano. Quando ho sposato ragazzi siciliani a Napoli e viceversa è stata una sorpresa. Perché ognuno vive imploso nella propria realtà. Ebbene, questi ragazzi sono riusciti a dialogare con l’Istituzione laddove questa è aperta. In Calabria sia il centrodestra che il centrosinistra hanno collaborato con questo mio lavoro».
Nelle altre regioni nessuna apertura?
«Le regioni più grandi tendono ad una chiusura. In Campania ho avuto buone esperienze quando c’è stato Andrea Losco e Nino Daniele. Poi con la presidenza Bassolino ho avuto confronti con l’assessora al Lavoro Buffardi che ha avuto una posizione ideologica, contraria all’idea di far crescere la piccola impresa».
Sta dicendo che Napoli è fuori contesto rispetto al Mezzogiorno? E, dunque, ci sono due Sud?
«C’è un Meridione più agricolo, rurale ma meno addossato alle grandi città. Una realtà come quella di Napoli, invece, ha una complessità molto maggiore per un retaggio storico che costringe ad una grande fatica per cambiare le cose. Qui, nell’area partenopea, è molto meno possibile cambiare ».
Perché questa fatica a cambiare il proprio modo di vivere e operare?
«Quando arrivai a Napoli percepii l’aroma di una nobiltà da poco estinta, e ho avuto la sensazione che la società civile fosse ancora organizzata all’antica, attorno ad un nucleo storico che era quello di Marotta. Poi l’equilibrio si è rotto, forse era anche giusto romperlo, visto che Napoli ha partecipato agli stravolgimenti degli Anni 60. Questa fase sociale l’ho vissuta e ho visto che l’aristocrazia non ha saputo rigenerarsi e che gradualmente è andata avanti una spinta plebea, certo già vista dappertutto ma qui è stata più grave. Un spinta della plebe che ha pensato di rendere tutto più facile, trovare scorciatoie, aggirare la legalità, pretendendo di avere di più di quel che meritava. Questa spinta come di liberazione da vecchi ceppi sociali era in sé molto sporca. E’ diventata una patologia che ha procurato metastasi».
La difficile area napoletana quanto pesa nello sviluppo del Meridione? E pesa tanto da bloccarlo?
«Pesa certamente, ma non tanto da bloccarlo per fortuna. Credo che ciascuna regione e ciascuna zona sappia fare da sé. Ma è vero che ci sono zone in cui l’attività legale è prevalente».
Allora Napoli palla al piede del Mezzogiorno?
«Mai pensato a palle al piede. Credo una cosa diversa: i problemi italiani si risolvono in italiano, con un processo di sviluppo che dialoga con l’Europa ma anche con il Mediterraneo».
Però se non si comunica, come ha detto lei, è anche peggio.
«E’ la conseguenza di uno Stato che non è in condizione di avanguardia nel mondo, ho lavorato in Usa e Canada e le cose sono diverse. E la questione del federalismo è proprio questa: esso prevede che si vada insieme quando si è d’accordo e divisi quando non lo si è. Il nostro sistema funziona in altro modo: o si va ognun per sé; o tutti devono essere d’accordo. Nel caso della mia esperienza di lavoro è bastato che la Regione fosse assente alle riunioni per bloccare tutto. Invece è da qui che bisogna partire: dal Sud viene fuori una prospettiva di crescita per il Paese a cui il Paese non ha ancora pensato».
Tra meno di un mese si va al voto europeo, con quali credenziali politiche gli attuali candidati puntano a Strasburgo?
«La loro è una politica antica. Pensano che il problema sia avere tanti soldi e spenderli in zona. Il loro rapporto con l’Europa non è basato su programmi di sviluppo».
(Patrizio Mannu – Corriere del Mezzogiorno, 12/05/2009)


