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mercoledì, Aprile 24, 2024
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«MA LE FOIBE RIENTRANO NELLA STORIA COMUNISTA»
Il dibattito. I ricordi scomodi e l’arte del «negazionismo»

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Carissimo Antonio Menna, ho letto con grande intesse il tuo articolo sulle foibe. Permettimi, in nome di un’antica e consolidata amicizia, di dissentire da alcune tue affermazioni. Mi conosci da danni, da decenni e, anche da sponde opposte, spesso ci siamo ritrovati sia nel giornalismo che in politica a
pensarla allo stesso modo. Gianni Oliva, storico e politico Ds (oggi vicepresidente della Provincia di Torino), trovò il coraggio, nel 1999, di affrontare il terreno proibito della vicenda delle foibe nel suo libro “La resa dei conti”. Ebbene, egli stesso dichiara di aver insegnato per molto tempo storia e filosofia nelle scuole senza mai parlare di quell’argomento, semplicemente perché prima di dedicarvisi con piglio scientifico non ne sapeva niente. La sua era la condizione di tutti gli italiani (tranne gli interessati e quanti tacquero per ragioni politiche): il crimine comunista compiuto ai danni di migliaia di esseri umani colpevoli di italianità è rimasto un tabù, un segreto inconfessabile.



E’ vero che i fatti istriani passati sotto silenzio sono il tributo dell’Italia sconfitta all’Europa di Yalta e che, in virtù di questa condizione politica, il velo omertoso non riguardò soltanto le forze di sinistra; ma le foibe sono tutte nella storia comunista, rientrano nella responsabilità di chi ha trasportato nella storia quell’ideologia di odio nascosta nel buonismo egualitario. Anche sulla negazione della tragedia delle foibe i comunisti italiani (e i loro eredi) hanno fondato la menzogna
della loro dignità democratica e morale antifascista; un dogma culturale che dura ancora ai nostri giorni.



Nel luglio del 1999 la minoranza di centrodestra nel consiglio comunale di Pisa propose l’intitolazione di una via o una piazza ai martiri giuliani. Il sindaco Paolo Fontanelli, comunista riciclato Ds, rispose che quella storia era una «credenza»: mai successo niente dunque, calunnie. Un po’ di tempo dopo la sinistra propose un’intitolazione ai martiri delle foibe come vittime causate dalla guerra scatenata dalla barbarie nazifascista: un modo spicciolo di scaricare su altri le responsabilità di un crimine che pesa sulle spalle del comunismo italiano.



Del resto il silenzio su quelle stragi serviva a non offuscare la gloria dell’esercito di liberazione di Tito, e a non mettere in cattiva luce la soddisfazione di Togliatti per l’occupazione comunista di quelle terre giuliane, verso cui si diressero – per essere fatalmente delusi – addirittura alcuni operai italiani convinti dalla propaganda a raggiungere le terre finalmente “liberate”.



Ma veniamo alle accuse comuniste contro le violenze italiane ai danni degli slavi. Gli eccessi italiani vi furono e sono documentati, ma non mancano mai brutalità, purtroppo, in una guerra; ma sono altrettanto innegabili e senz’altro più luminosi e numerosi gli esempi di vicinanza al popolo serbo mostrati dai nostri connazionali (e lamentati più volte dai nazisti), gli atti di insubordinazione agli ordini draconiani dei comandi militari da parte dei quadri subalterni e delle truppe. Del resto lo stesso esercito italiano si trovò sbattuto in una situazione di guerra folle, dove tutti andavano contro tutti: ustascia croati, cetnici serbi, comunisti titini. Era difficile trovare il bandolo della matassa in quell’inferno: ci fu chi perse la testa, chi si abbandonò a metodi spiccioli e violenti, e naturalmente chi scelse la via della conciliazione o almeno della convivenza. All’origine del problema di quelle terre c’è la lotta senza quartiere fra serbi e croati, c’è il mito nazionalista della «grande Serbia» (diceva un motto serbo: «Il cielo serbo è di colore blu. Nel cielo troneggia un dio serbo accanto al quale siedono angeli serbi che onorano il loro dio serbo. Tutti serbi e dappertutto!»). E’ questo mito che si è innestato sulla ferocia comunista dando origine ad una crudeltà micidiale. Questo mito è arrivato fino a Milosevic, che è stato beniamino dei pacifisti qualche anno fa. Il comunismo e le sue simpatie sono mali che ritornano, in barba allo stesso Marx che, come tu dici, aveva paura perfino delle mosche.



Gli italiani delle terre d’Istria si trovarono così, nel periodo di dominio delle bande titine, alla mercé di criminali senza pietà, che li uccidevano senza pensarci due volte e li scaraventavano anche vivi dentro le profonde voragini carsiche (legati ad un compagno che veniva ucciso con un colpo alla testa). Un simile genocidio grida giustizia di fronte all’umanità che non deve ripetere i delitti del secolo appena spirato.



Ma anche in questi giorni, all’approssimarsi della Giornata del Ricordo delle vittime delle foibe, il 10 febbraio scorso (grazie ad una legge apposita che finalmente l’ha istituita lo scorso anno), i giornali comunisti si sono impegnati nell’arte del negazionismo. Le trombe squillanti che annunciavano la giornata della memoria della Shoah non si sono sentite: tutto era in sordina, perché negare ormai è impossibile ma almeno si tenta di sviare l’attenzione dalla vera natura di quell’eccidio. Si tirano ancora in ballo i torti fascisti per sminuire la responsabilità unica e immodificabile delle bande comuniste di Tito, come se l’ecatombe che subirono gli italiani fosse una sorta di nemesi necessaria.



La morale o è una o non è; o vale per tutti o non esiste. I crimini sono tali chiunque li compia, sotto questo cielo. E intanto le foibe stanno lì, col loro assordante silenzio di morte, a ricordare – proprio vicino a noi – che il comunismo si afferma con lo sterminio, magari insieme al nazionalismo esasperato che gli capita di trovare nelle terre in cui si insinua. Gli italiani che furono massacrati o che riuscirono a fuggire allo sterminio vennero considerati fascisti per lunghi anni, e per questo indesiderati, in un Italia pazzesca che si considera democratica perché antifascista e non antitotalitaria perché democratica. La menzogna e l’omertà devono essere spazzate via.



Questa Giornata del Ricordo é stata un po’ in sordina, rispetto a quella della memoria del 27 gennaio, non ha avuto lo stesso impatto mediatico: perché è ancora un ricordo scomodo, segno di una bugia titina che cade, insieme a molte altre, e lascia vedere una realtà spiacevole per chi conserva fra i suoi miti inconfessabili – ma presenti e pulsanti – la falce della violenza e il martello della dittatura. Ma è comunque importante iniziare, almeno, a ricordare, cioè a guardare senza schermi di nessun tipo i fatti della storia: perché non si facciano più classifiche fra le vittime innocenti del “secolo del male”.

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