la lettera
«HO frequentato un liceo come tanti. Una scuola dove la gente superficiale presta attenzione all’apparenza, e nota i tuoi cambiamenti. Io non sono timida, ma non mi piace esibirmi sfilando nei corridoi, dove tutti sfoggiano scarpe e vestiti nuovi. Non mi piace e non l’ho fatto, anche perché avrei potuto sfoggiare, di nuovo, solo una perfetta messa in piega liscia: una parrucca. I “miei capelli” mi sono ostinata a dire. A pochi ho raccontato il tormento del morbo che stava attaccando il mio corpo, la vera causa della caduta dei miei ricci e, tra quei pochi, i professori cui ho dovuto motivare le tante assenze.
Per sei mesi mi hanno detto che avevo tutta la loro comprensione, che mi avrebbero aiutato. Comprensione per cosa? Ho sempre continuato a studiare, non ho neppure mai chiesto di rinviare un compito che capitava all’indomani di una chemioterapia.
Sono giunta all’esame con 18 punti su 20. E con i capelli che cominciavano a crescere di nuovo. Ma i professori continuavano in quell’atteggiamento da pacca sulla spalla: «Non ti preoccupare, quello che non sai te lo diciamo noi».
All’orale ho ottenuto 35. Ero assai contenta. Poi la doccia fredda del punteggio finale: 79. L’amaro in bocca e la presa di coscienza di esser stata tutt’altro che aiutata. Meglio così, senza dover ringraziare nessuno. I miei professori, che volevano essere professori di vita, mi hanno insegnato, stavolta, a fregarmene di questo voto, ricevuto da persone di poco conto come loro sono.
Di sicuro non è il voto della mia vita. Questa è così bella che non si può sintetizzarla in due o più cifre».
Elena
rep.