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giovedì, Aprile 18, 2024
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GIUGLIANO, PER UN PUGNO DI SCORIE

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Un racconto senza eroi. Senza vincitori ma soltanto vinti. Un racconto
abbacinato dalla luce di una terra disseminata di storia e, ancora oggi,
tenacemente contadina. Una terra puttana che si è lasciata toccare,
denudare, stuprare, sviscerare per pochi spiccioli e senza fiatare. È la
storia di un degrado, prima nei valori morali e sociali e solo dopo
oggettivamente rappresentati da un bidone giallo con il teschio nero dipinto
su un lato. Un racconto in cui, timidamente, s’intrufola un urlo animale che
invoca “giustizia” e che sembra promettere “pagherete caro. tutto”. E prima
o poi, qualcuno dovrà pagare.
Si intitola “Non lo chiamano veleno”, edito per i Tascabili di Avagliano
Editore (9 euro), e potrebbe benissimo avere come sottotitolo “Sul degrado
di una città e dei suoi abitanti”. La città in questione è Giugliano, ma non
è difficile scorgere angoli di Bombay, Caracas, San Paolo, Jakarta o qualche
altra periferia dimenticata in qualsiasi Sud del mondo. Un romanzo breve in
cui l’autore – alla sua prima prova letteraria – è riuscito a sintentizzare
malefatte e orrori aggiungendone il contorno torbido del sesso e della
depravazione. Alla descrizione dettagliata e succinta dal taglio tipicamente
giornalistico, Pietro Treccagnoli, giuglianese doc, stuzzica il lettore con
un uso ponderato delle parole e della lingua, trasformando le pagine del suo
noir in uno spartito su cui affiorano, riconoscibili, le note di una
frenetica e ipnotica tammorriata. Proprio il linguaggio scelto dall’autore
rende il romanzo in un interessante e innovativo esperimento di
comunicazione in bilico tra passato e futuro, fortificato dai rimandi alle
fiabe di Basile e alle canzoni popolari. Una sorta di giuglianese
globalizzato che Treccagnoli ha reso ancora più unico e caratterizzante
attraverso l’uso “politically incorrect” che ne viene fatto.
Con la scusa di raccontare il degrado senza via d’uscita nell’hinterland a
Nord di Napoli affollato di prostitute gabonesi, delinquenti e tossici,
Treccagnoli ci porta “fino alla fine del mondo”. Un mondo alienato e
alienante, dove la “munnezza” è il motore intorno a cui i personaggi si
muovono. La munnezza sul ciglio della Domitiana dove le puttane africane si
svendono per pochi euro, la munnezza radioattiva nascosta nelle campagne
coltivate a “percoche e crissommole”, la munnezza chimica che in tanti
sniffano o fumano da mattina a sera e che credono sia il paradiso, la
munnezza su cui e con cui è costruito Casacelle, che con le esotiche
Seychelles ha in comune soltanto la sonorità. E poi c’è il sesso. Un sesso
mai romantico o erotico, semmai sfacciato, volgare, ossessivo. Camorristi
dall’omosessualità irrefrenabile, arabi dall’erezione incontenibile,
commissari dal voyerismo incolmabile e poliziotte dalla lussuria invadente.
Un sesso spesso solo immaginato, ma non per questo meno soddisfacente.
Semmai è in quei pensieri pruriginosi così fervidi e reiterati che si
nasconde la lucida follia del medio borghese “pulito fuori” ma “sporco
dentro”. Gente che puoi incontrare in fila al supermercato e che nemmeno un
intero fustino di “Dash” potrà rendere “bianco che più bianco non si può”.
Un testo che conferma la commistione tra “‘o bbuono e ‘o malamente” nello
stesso individuo, anche in chi dovrebbe, per mestiere, portare in galera i
delinquenti. Ma poi, i delinquenti veri sono davvero questa banda di sfigati
che si nasconde in bunker sotterranei e invoca “perdono” a Gesù Cristi
giganteschi? Lo sono semmai gli invisibili che tramano dietro le quinte, che
muovono i fili dei burattini smercia munnezza. Altri borghesi “puliti fuori”
e “sporchi dentro” di cui non conosceremo mai il volto, ma che non sarà
difficile scorgere sulle pagine di qualche giornale “rosa pallido” che
titola su una geniale idea della “new economy”.
Eppure, in mezzo a tutta questa “fetenzia”, il romanzo accenna a un
cedimento romantico, o meglio nostalgico: la scoperta del sesso in pubertà,
i racconti nell’aia, le visioni di Ntunetta, la leggenda dell’orco di
Settecainati.
E nelle ultime pagine del romanzo, sottile e ironica, deflagra la denuncia
morale di un popolo a cui non resta che assistere alla fine dell’ennesima
“Via Gluck”. Una denuncia appassionata e arguta, che Treccagnoli scrive
intingendo la penna nella terra lurida e contaminata che va da Licola a
Varcaturo, che nonostante tutto continua a resistere con operosa dignità.

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