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Luca, infermiere nella prima linea del Covid al Monaldi: “Atroce vedere la sofferenza negli occhi dei pazienti”

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Li abbiamo chiamati eroi e angeli, gli infermieri che per più di due mesi sono stati in “trincea” nei reparti di terapia intensiva Covid 19 degli ospedali italiani. Sono uomini e donne, professionisti che ogni giorno sono stati chiamati a combattere un’emergenza sanitaria capace di una devastazione epocale. A raccontare a telefono la sua esperienza è un giovane infermiere dell’Azienda Ospedaliera dei Colli di Napoli di 26 anni, Luca Matuozzo  che in questo periodo è stato impegnato nel reparto di rianimazione Covid-1 del Monaldi. Luca è stato chiamato insieme ai suoi colleghi a far fronte alla più grande emergenza sanitaria del nostro secolo.Luca prima di cominciare a rispondere alle domande, con la voce di chi ancora è provato da questa emergenza dice che nella sua carriera si sarebbe aspettato di vedere di tutto, ma mai di far fronte ad una simile tragedia. Una pandemia globale che non lascia via di scampo.

Luca, cosa significa essere infermieri ai tempi del Covid 19? Difficile,dal punto di vista fisico ed emotivo. Turni stravolti ma soprattutto leggere la sofferenza atroce negli occhi dei pazienti è stato qualcosa che non si può descrivere con le parole, sono sensazioni che ti cambiano nel profondo, professionalmente ed umanamente.

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Come sono stati i rapporti con i pazienti ricoverati? E’ stato fondamentale per i pazienti Covid 19 non sentirsi isolati. Dobbiamo considerare che restano ricoverati 40/50 giorni e medici ed infermieri, oltre ad essere le persone con le quali hanno avuto unico contatto, anche l’unico viso familiare. In tutti i reparti Covid indossavamo le tute di biocontenimento con i nostri nomi dietro le spalle e sul petto per riconoscerci non solo fra colleghi ma anche dai degenti, anche se con il tempo avevano imparato a riconoscere le nostre voci.

Sono solo gli over 65 con malattie pregresse ad essere arrivati in terapia intensiva? No, all’inizio dell’emergenza si pensava che le persone giovani e di buona salute fossero immuni dal virus e che ad ammalarsi fossero gli anziani o le persone con malattie pregresse. Invece non è così. Nessuno è immune, può colpire chiunque, anche chi gode di buona salute.

Come avete  sostenuto la paura e lo stress psicologico?La paura ci ha accompagnato ogni giorno. Prima di entrare in reparto mi chiedevo se avevo eseguito per bene tutte le procedure di sicurezza, ed era la stessa che mi ripetevo a fine turno. Non potevo permettere alla paura di prendere il sopravvento sulla razionalità, avrei messo a rischio me stesso, colleghi, pazienti in via di guarigione e la mia famiglia. Lo stress psicologico, anche quello faceva parte della quotidianità. Il nostro è stato un lavoro di equipe e quindi fra colleghi si cercava  di sdrammatizzare,di sostenerci a vicenda.

Ci racconti un episodio che ti ha colpito di più? Tutti i casi, ognuno in modo diverso, lasciano un segno indelebile. Particolarmente uno di questi rimarrà infisso nella mia memoria e nel mio cuore per sempre. Si tratta di un giovane di 26 anni dell’agro-nocerino, un mio coetaneo. Di appena 40 giorni più grande di me. Inevitabilmente mi sono identificato in lui, magari stessi sogni per il futuro e stesse speranze. E’ stato duro vedere come questo maledetto  Virus riuscisse ad avere un impatto importante anche su un ragazzo giovane e di buona salute.  Dopo le sue dimissioni, il ragazzo con una lettera ha ringraziato medici ed infermieri del reparto per il trattamento riservatogli con professionalità, precisione e soprattutto con umanità. Queste sono dichiarazioni che ti riempiono  il cuore di gioia e ti spingono a non mollare mai.

Nel fine settimana è arrivata una bella notizia, ovvero la chiusura del reparto Covid-19, cosa hai provato? Ce l’abbiamo fatta! Reparto Covid chiuso. E’ quello che mi ripeto incessantemente da ieri. Ora ci aspetta una nuova situazione, ce la faremo lo stesso.

 

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