Il 15 marzo 2025, a Napoli, il tempo si è fermato per una madre, una famiglia ed un intero quartiere. Emanuele Durante aveva soltanto 20 anni quando è stato ucciso a sangue freddo mentre era in macchina. Un colpo netto, che non ha lasciato scampo.
Da quel giorno il suo nome non è più solo quello di un ragazzo, ma uno dei simboli di una città che troppo spesso si ritrova a piangere i suoi figli, intrappolati in destini che sembrano già scritti.
Emanuele era nato e cresciuto in quella Napoli che il mondo guarda con occhi divisi: da un lato i vicoli che diventano scenografie per cartoline da social, dall’altro la realtà di quartieri segnati da assenze, ingiustizie e fragilità.
Scenari che attirano fotografi e influencer, ma che spesso dimenticano le storie vere: quelle fatte di precarietà, scelte difficili e sogni che si infrangono troppo presto.
La bacchetta magica di Emanuele
Un giorno, qualche anno fa, Emanuele aveva confidato di volere una bacchetta magica per “trasformare i cattivi in buoni”.
Un desiderio semplice, quasi infantile, ma che dice tutto della sua visione del mondo.
Per lui “cattivi” e “buoni” non erano categorie astratte, erano facce, persone, vite quotidiane. Nei quartieri dove la violenza è normalizzata e il bene e il male non sono mai netti, le parole cambiano peso.
Emanuele aveva la corazza di chi impara presto a difendersi, ma dentro restava fragile.
E quella fragilità non è segno di debolezza, racconta la fatica di crescere in contesti che chiedono sempre durezza, mentre intorno le istituzioni sono assenti. La sua forza era fatta di bolle di sapone: leggere, scintillanti, ma pronte a svanire con un tocco.
Il sistema che fallisce
Napoli decide spesso per i suoi figli. Li accoglie con la sua bellezza e la sua vitalità, ma allo stesso tempo li imprigiona dentro confini invisibili e possibilità ridotte. Ti mostra strade, sì, ma a volte sono strade che finiscono in vicoli ciechi.
Chi nasce in certi quartieri parte da un bivio che sembra già tracciato. L’idea di poter scegliere un destino diverso diventa un privilegio per pochi: per chi ha famiglie solide, scuole capaci di sostenere, reti sociali che non ti lasciano cadere.
Per gli altri serve una forza immensa solo per restare a galla.
La forza individuale non basta se mancano strumenti collettivi. E quegli strumenti dovrebbero arrivare dalle istituzioni, dalla scuola, dalla politica: tre pilastri che troppo spesso si mostrano fragili o addirittura assenti.
Emanuele non era solo. Accanto a lui c’era la madre Valeria, che ha combattuto fino all’ultimo per offrirgli un’alternativa. C’erano realtà come la Comunità di Sant’Egidio e la Fondazione Grimaldi, assistenza sociale e tanti che hanno provato a costruire piccoli argini contro l’abbandono. Ma quei tentativi restano gocce nell’oceano se non diventano politiche strutturali. Troppo poco, sempre troppo poco.
In quel vuoto si radica una violenza sistemica. Non solo quella dei colpi sparati, ma quella più subdola e quotidiana dell’assenza, dell’indifferenza, delle occasioni negate. Una violenza che riguarda un intero tessuto sociale. Scuole che respingono invece di includere, lavoro che manca o sottopagato, istituzioni che parlano solo con la repressione.
La cronaca racconta queste storie come scelte individuali. Ma dietro quelle scelte c’è un contesto che pesa come una condanna preventiva. Non è solo Emanuele a fallire: è un intero sistema che tradisce i suoi figli, lasciandoli soli proprio quando avrebbero più bisogno di essere accompagnati.
I numeri che raccontano la fragilità
Dietro la storia di Emanuele ci sono numeri che non lasciano scampo. Non sono semplici statistiche: sono il ritratto di un sistema che genera esclusione invece di offrire possibilità.
In Campania le carceri ospitano quasi 7.600 persone a fronte di 5.497 posti disponibili. Significa che centinaia di uomini e donne vivono in condizioni di sovraffollamento costante, senza spazi e senza percorsi di rieducazione.
A livello nazionale, al 31 agosto 2025, i detenuti erano 63.167 per 46.706 posti. Un’intera popolazione rinchiusa in celle che diventano contenitori di disagio più che luoghi di recupero.
«Il carcere non rieduca più: è un contenitore di fragilità – ha denunciato Samuele Ciambriello, garante per i detenuti – si entra di più e si esce di meno».
Parole che sintetizzano una contraddizione insanabile: lo Stato risponde con la detenzione, ma la detenzione non restituisce nulla alla società. Aumentano le pene, ma non diminuisce il disagio sociale che le alimenta.
E i dati sui minori parlano ancora più chiaro: nel 2025 in Italia 742 ragazzi sono stati condannati per maltrattamenti in famiglia, mentre 700 sono entrati nei centri di prima accoglienza, quasi un centinaio solo in Campania. Numeri che raccontano vite giovanissime già segnate da violenza e abbandono, ragazzi che invece di ricevere supporto finiscono incasellati in un sistema che li guarda solo come colpevoli.
Questi dati non sono fredde cifre. Dietro ogni numero c’è un volto, una famiglia, una storia che assomiglia a quella di Emanuele. Un ragazzo che sogna, sbaglia, cade, ma non trova una mano forte a sollevarlo.
Il carcere, così com’è oggi, non risana le crepe ma le moltiplica. I numeri, allora, diventano denuncia. Raccontano di uno Stato che spende energie per reprimere ma non per prevenire.
Un figlio di Napoli
Emanuele è figlio di una geografia che non è solo urbanistica, ma politica.
Crescere in un quartiere o in un altro significa avere possibilità diverse, diritti diversi, a volte vite diverse.
La sua morte è una ferita che non riguarda solo la sua famiglia, ma una comunità intera. È il simbolo di quanto sia facile giudicare dall’esterno – “era sulla strada sbagliata”, “aveva fatto le sue scelte” – e quanto invece sia difficile guardare oltre le apparenze, dentro i meccanismi che generano queste vite spezzate.
Non un’ennesima vittima
Oggi, in occasione della messa in suffragio, ricordiamo Emanuele non solo per la sua giovane età, ma per quello che rappresenta: l’urgenza di cambiare le cose.
Se le bacchette magiche non esistono, esistono leggi, politiche, percorsi educativi e opportunità che possono trasformare davvero i cattivi in buoni.
Emanuele non deve restare l’ennesima vittima di Napoli. La sua magia può iniziare adesso, se la sua morte diventerà l’occasione per rivedere le scelte, per pretendere uno Stato presente, per restituire dignità a chi cresce nei margini.
Aveva solo 20 anni, ma ci ha lasciato un compito grande: non voltare più lo sguardo.

