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Rifiuti, se Napoli copiasse Venezia

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di Gian Antonio Stella (da: “Corriere della Sera” del 22 dicembre 2007)

Riuscirà Babbo Natale a raggiungere tutti i bambini facendosi largo con la slitta tra montagne di spazzatura? Ecco il dubbio di tanti piccoli napoletani. I quali, oltre al gran freddo che il buon Gesù ha mandato loro a rendere meno fetida l’aria, avrebbero diritto ad avere in dono un po’ meno di ipocrisia. Cosa ci hanno raccontato, per anni e anni? Che il pattume partenopeo, ammucchiato senza uno straccio di raccolta differenziata così com’è («tale quale», in gergo) non può essere trattato, ripulito, riciclato, trasformato in combustibile e bruciato.



Falso. Succede già. A Venezia. Dove lo stesso tipo di immondizia viene smaltito senza problemi dal più grande impianto europeo di Cdr (Combustibile Derivato dai Rifiuti) che manda in discarica solo il 6% di quello che arriva coi camion e le chiatte. E dov’è l’inceneritore? Dov’è questo mostro orrendo le cui fiamme fanno inorridire i campani che da anni, dipingendosi già avvolti dai fumi neri della morte, si ribellano all’idea di ospitarne qualcuno? A tre chilometri dalle bancarelle del mercato di Marghera. A cinque da Mestre. A otto dal campanile di San Marco. Senza che nessuno, neppure il gruppuscolo ambientalista più duro e puro e amante delle farfalle, abbia mai fatto una manifestazione, un corteo, una marcetta, un cartellone di protesta. Prova provata, se ancora ce ne fosse bisogno, che sotto il Vesuvio sono troppi a giocare sporco.



Pare una clinica, l’impianto in riva alla laguna, ai margini di Marghera. La bolzanina «Ladurner» l’ha costruito (dal primo scavo nel terreno al fissaggio degli interruttori elettrici) in dodici mesi. Contro i millenni necessari, non per l’indolenza delle persone quanto per la rete di veti e ricatti, nella sventurata Campania che, stando ai dati Apat, rappresenta da sola il 43% del territorio italiano inquinato dallo smaltimento scriteriato, o addirittura criminale, della «munnezza». Impianto pulito. Silenzioso. Efficiente. Apparentemente quasi deserto. «Quanti dipendenti? Meno di un centinaio. Al Cdr, su tutto il ciclo, 28 persone», spiega Fiorenzo Garda, dell’azienda altoatesina. Sei in meno di quanti bivaccano al call-center napoletano del Pan (Protezione ambiente e natura) dove, stando al rapporto della commissione parlamentare, ogni centralinista riceve mediamente una telefonata a testa alla settimana.



Ventotto persone che, scivolando tra capannoni, rampe e officine, ricevono ogni giorno i rifiuti urbani di Venezia (comprese Mestre, Marghera, le isole), Chioggia e larga parte della Riviera del Brenta per un totale di 300mila persone. Meglio: per un totale equivalente a una popolazione di 300mila abitanti. La Serenissima è infatti una città speciale per almeno due motivi. Il primo è che, scesa nei decenni a 50mila residenti, accoglie ogni anno quasi 20 milioni di turisti (meglio: 20 milioni di presenze giornaliere, per una media di circa 55mila abitanti supplementari al giorno con punte di 150mila) ai quali è praticamente impossibile imporre la raccolta differenziata. Il secondo è che un conto è portar via la campana della carta e del vetro coi camion in terraferma (dove la «differenziata» sta mediamente al 45%) e un altro con le barche nei canali.



Risultato: le «scoasse» veneziane sono uguali alla «munnezza» napoletana. Con più nero di seppia e meno pummarola, ma uguali. E infatti, caricate sulle barche a da lì trasbordate su enormi chiatte alle spalle della Giudecca, quando arrivano alle banchine di Marghera potrebbero essere perfettamente confuse con quelle che vengono scaricate dai camion nelle fosse dantesche degli impianti partenopei. È lì che i destini si dividono.



I rifiuti campani, in attesa dei termovalorizzatori (quello di Acerra che doveva essere acceso a ottobre, dopo 14 anni dalla prima dichiarazione di emergenza, è bloccato dall’inchiesta dei giudici e i lavori per quello di Santa Maria La Fossa devono ancora cominciare) vengono imballati alla meno peggio e ammassati in gigantesche piramidi su terreni comprati a prezzi sempre più folli, con misteriosi rincari anche del 500% in dodici ore. Piramidi che ormai stoccano sette milioni di tonnellate di «ecoballe» (che «eco» non sono) le quali potrebbero, se allineate, coprire la distanza che c’è da Parigi a New York. Una situazione esplosiva. Che costringe da anni i commissari via via nominati a recuperare nuove discariche (l’ultima è a Serre, a 102 chilometri dal capoluogo campano e per farla hanno buttato giù centinaia di querce) o a riaprirne di chiuse sfidando la collera degli abitanti. Collera spesso accesa dalla camorra, che vede a rischio i suoi affari. Che si nutrono proprio dell’emergenza campana. Costata fino ad oggi almeno un miliardo e duecento milioni di euro. I rifiuti veneziani no, quelli i soldi, agli azionisti pubblici, li fanno guadagnare. Dice Gianni Teardo, responsabile tecnico degli impianti, che quest’anno il complesso di Marghera, costato 95 milioni di euro (un dodicesimo dei soldi spesi in Campania) va in attivo. Spiegare come la spazzatura venga «bollita» per una settimana in enormi cassoni («biocelle »), asciugata, sminuzzata, passata al setaccio per separare quello che può essere riciclato tra i metalli, la plastica o la carta, sarebbe lungo. Basti sapere che, mettendo insieme questo lavoro con quello a monte della raccolta differenziata e poi una seconda e una terza operazione di filtraggio, l’impianto veneziano si vanta di mandare in discarica nell’entroterra di Chioggia solo il 6% del pattume trattato. Che dovrebbe essere ridotto entro un paio di anni al 3%. «Anche se puntiamo a ridurlo ancora, fino ad azzerare il ricorso alla discarica».



Ferri, plastiche e carta vengono venduti sul mercato. La metà del Cdr prodotto e compattato in «brichette » simili a corti bastoncini è ceduto all’Enel che lo brucia al posto del carbone per fare energia. Tutto ciò che può essere usato allo scopo diventa «compost» per fecondare i terreni troppo sfruttati e in fase di desertificazione. E quel che resta, infine, viene bruciato.



Direte: oddio, vicino a Venezia! Esatto: in faccia a Venezia. Senza una protesta. Sotto il controllo dell’Arpav. Con un rapporto giornaliero sui fumi emessi. E sapete cosa salta fuori, a vedere i dati certificati dalle autorità sanitarie? Che un inceneritore di ultima generazione come quello veneziano, tra filtri e controfiltri, sta molto al di sotto dei limiti fissati, che sono da cinque a quindici volte più rigidi rispetto a quelli delle centrali termoelettriche o dei cementifici. Ma c’è di più. Fatti i conti, quel camino che smaltisce ciò che resta dei rifiuti di 300mila abitanti butta nell’aria ogni ora circa 60mila milligrammi di polveri. Pari a quanti ne escono, stando alle tabelle Ue, dai tubi di scappamento di quindici automobili di tipo Euro2. Per non dire di quelle più vecchie, che inquinano infinitamente di più. Direte: e se queste polveri fossero più aggressive? Massì, esageriamo: ogni camino come quello di Marghera inquina come una cinquantina di auto Euro2. E sapete quante ce ne sono, in Campania, di auto così o più vecchie e inquinanti? Oltre 2 milioni e 200mila. Pari a 44mila inceneritori come quello di Marghera.

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