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giovedì, Aprile 25, 2024
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“Con una mia canzone un ragazzo si svegliò dal coma”, Tony Tammaro si racconta per i 30 anni di carriera

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La semplicità tamarra è il suo biglietto vincente da trent’anni, e li festeggerà con un mega-concerto al Palapartenope il 27 dicembre, quasi sold out in prevendita. Così, in un’intervista al Corriere della Sera, Vincenzo Sarnelli, 61 anni, in arte Tony Tammaro, si racconta. Napoletano del Rione Alto, scrive canzoni e libri, inventa personaggi, e riempie ancora le piazze con i suoi tormentoni trash: Scalea , ’O trerrote , Supersantos e, naturalmente, Patrizia .

Tony chi è Patrizia, ce lo dice per favore?

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«La figlia di una signora che abitava al piano di sotto al Rione. Lei non l’ho mai conosciuta, ma la madre ripeteva come un mantra “Patrizia, Patrizia” quando la chiamava dal balcone. La cosa mi sembrava musicale. Presi la chitarra e ci feci una canzone».

E la Patrizia in questione ha mai saputo di essere lei?

«No, non credo, anche se ormai quando una donna nella nostra regione si presenta e dice: “Io sono ‘a Patrizia”, inevitabilmente scatta la domanda: “La reginetta di Baia Domizia?”».

C’è qualche altra donna che le ha ispirato una canzone?

«Sì, ma non si tratta di giovani belle donne. Il più delle volte mi sono ispirato a vecchie zie e a qualche cugina tamarra di mia mamma».

La cugina se l’è presa o ne è andata orgogliosa?

«I tamarri non sanno di essere tamarri, per cui la cugina di mia madre mi ha sempre detto che si divertiva molto ad ascoltare le mie canzoni senza capire che stavo parlando di lei».

E gli amori?

«Una sola donna: la professoressa Nicla Mercuri che amo come il primo giorno in cui la incontrai da spettatrice ad un mio spettacolo. Insegna inglese e tedesco in un liceo di Caserta, dove viviamo. Ho due figli: Francesco Saverio che ha 24 anni e sta quasi per laurearsi in Conservazione dei beni culturali e Maria Cristina di 17, frequenta il liceo classico».

Ovviamente Patrizia è la sua canzone preferita.

«È quella che mi permise di licenziarmi dal mio lavoro impiegatizio e mi consentì di fare questo che mi dà più soddisfazione».

Che lavoro?

«Ero impiegato alla Libreria Guida di via Port’Alba. Mi occupavo della vendita di grossi stock di libri alle biblioteche cittadine. Era un buon lavoro, ben remunerato, ma non era ciò che volevo fare nella vita».

Come nasce Tony Tammaro?

«Alla fine degli anni ‘80 fui costretto a cambiare nome. Operavo come cantante sulla piazza di Napoli e anche mio padre Egisto Sarnelli era ancora in attività. Decidemmo di comune accordo che io avrei fatto uso di un nome d’arte. Non volevamo creare confusione nel pubblico».

Come la prese Egisto, chansonnier di fama?

«Papà era un purista della canzone napoletana. Non amava contaminazioni e neppure Pino Daniele, perché diceva che la chitarra elettrica “non ci azzecca” con la canzone napoletana. Perciò fu difficile fargli accettare le mie canzoni perché secondo lui andavano contro la tradizione. Poi negli ultimi anni della sua vita si accorse che certe correnti erano il seguito naturale della tradizione».

Esordi difficili?

«La mia è stata una carriera anomala. Diventai famoso subito. Il tempo di incidere un disco e la settimana dopo mi conoscevano tutti. Non ho fatto gavetta, anche se comunque, per mia scelta, andai a lavorare in provincia. Le metropoli bruciano gli artisti e seguono di più le mode. La provincia ti resta fedele e così è stato».

Di quale provincia parliamo?

«Ho cantato e canto ancora in tutte le province della Campania, nel basso Lazio, in Puglia e in Calabria. Ovunque si parli il dialetto napoletano ci sono».

È vero che Tony Tammaro ha cantato in tutti i 550 comuni della Campania?

«Eh sì. In tutti e anche più di una volta per singolo comune. In un’occasione incontrai il presidente De Luca e gli dissi che la regione probabilmente la conoscevo meglio di lui. Nel paese di Strangolagalli, vicino Capua, ci ho cantato per quattro anni di seguito, idem per Castel Morrone in provincia di Caserta».

Ottanta e più personaggi. Ma dove li prende?

«Nella libreria di mio padre Egisto, che era anche uno studioso di canzoni napoletane, trovai un curioso volumetto intitolato: Le macchiette di Nicola Maldacea . Per ogni pagina c’era il testo di una canzone dedicata a un personaggio che fa parte della commedia della vita: il giudice, l’avvocato, il malavitoso ecc. e la foto di Maldacea (caratterista di inizio 900) truccato nei panni del soggetto della canzone. Da grande, credo di aver proseguito il lavoro iniziato da lui».

Quasi cento canzoni. Quando le pensa, dove, come?

«Ho un mio particolare sistema di lavoro. Non aspetto l’ispirazione ma la provoco. Mi dico: stasera scrivo una canzone. Mi rilasso, ascolto musica e, nel frattempo guardo un film. Appena individuo una situazione o un personaggio da trattare, inizio a scrivere. Credo che la mia forza non sia tanto nella stesura dei testi, quanto nell’individuare soggetti di cui nessuno aveva scritto prima che lo facessi io».

Oggi la parola tamarro funziona ancora?

«È eterna e supera ogni confine geografico. I tamarri sono personaggi nati in piccoli paesi dove esistono scale di valori diverse da quelle cittadine ma che, una volta trasferitisi in città, portano la loro cultura e la mischiano a quella urbana. Creano così slang, modi di vestire e di essere che li contraddistinguono. L’effetto comico per chi li descrive è garantito».

La chiamano il sociologo della canzone cafona. Ma lei chi sente di essere?

«Uno spettatore e un cronista di un’Italia che cambia davanti ai miei occhi. Ricordo alla perfezione almeno quattro decenni di vita italiana, con tutte le mode, gli stereotipi, le ascese e le cadute di politici, attori, cantanti».

Studia?

«Studio i personaggi “meteora” probabilmente per non fare la stessa fine. Se canto da più di tre decenni e mi ritrovo ai miei spettacoli un pubblico di giovani, lo devo alle mie ricerche su come evitare gli scivoloni. Questo mese canterò alla festa di compleanno di un cinquantenne e pochi giorni dopo a quella di un diciottenne. Non è da tutti riuscire in questa impresa».

Riempie pure le piazze. Come se lo spiega?

«C’è da parte del pubblico una voglia di “altro”, inteso come contrapposizione a quei cantanti che io chiamo di “regime”. Se vai sulle radio commerciali ti accorgi che stai ascoltando sempre gli stessi cantanti da decenni. Il mio pubblico mi segue da sempre perché da me si aspetta la battuta “politicamente scorretta” e un minimo di non omologazione che sa tanto di libertà di pensiero».

Peace and love detto oggi alla sua maniera, che canzone sarebbe?

«È il motto adottato da uno dei miei artisti di riferimento: Ringo Starr. Condivido in pieno queste sue parole che da sole basterebbero, se venissero applicate alla lettera, a farci fare un salto in avanti di 3 mila anni. Il mio motto è “massimo rispetto” che comunque si avvicina tanto a peace and love».

Il ricordo più bello di Tony Tammaro?

«Riguarda un ragazzo di San Giovanni a Teduccio che, cadendo dal motorino, finì in coma. Un giorno i suoi amici andarono a trovarlo in ospedale e gli misero delle cuffiette in testa con la mia canzone ‘O trerrote . Uscì dal coma ascoltandola. Alcuni giorni dopo i suoi genitori mi invitarono in ospedale. Fu un momento molto commovente per tutti».

E il più brutto?

«È legato a certi cafoni che incontravo nei primi anni di carriera. Andavo a cantare in paesi molto arretrati in cui mi accoglievano con un: “canta bbuon o si no nun te pavammo”».

Il sogno nel cassetto di Tony Tammaro.

«I miei sogni più grandi non riguardano la mia professione. Ad esempio, sogno di vedere decamorrizzata la mia terra. I segnali ci sono. La Campania è molto migliorata rispetto a quando ero più giovane. Mi sono commosso quando è stata inaugurata una sede universitaria a Scampia. Meno Gomorra, più cultura».

 

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