Cosa sia successo in quella stradina di campagna, macchiata di sangue e seminata a pallottole, è tuttora un mistero. L’unica cosa certa è che ormai si può morire per camorra anche a quindici anni, nemmeno compiuti. Come è capitato ieri pomeriggio nei dintorni di Mugnano a Sebastiano Maglione, un ragazzino che girava con la pistola infilata nella cintola e che del piccolo boss aveva tutto, compresi i natali.
Suo padre Francesco, infatti, è considerato un pezzo da novanta della mala che domina l’hinterland napoletano. Dicono che sia legato al clan Bidognetti, una delle famiglie più temute fra quelle che si contendono il litorale domitio e i territori circostanti. Ma questo legame, che nella zona incute paura soltanto a parlarne, non è bastato a salvare la vita di suo figlio: né prima che gli sparassero, quando Sebastiano rapinava chi gli capitava a tiro e la polizia riusciva ad acciuffarlo, né tantomeno nell’istante in cui gli hanno puntato una calibro 9 alla testa per ucciderlo come un cane. Perché di questo s’è trattato: di un’esecuzione a sangue freddo, compiuta molto probabilmente al termine di un inseguimento. L’assassino ha poggiato la canna dell’arma sulla tempia del ragazzo e ha premuto il grilletto. Una sola volta. Spappolandogli il cranio.
Ma cosa può spingere ad ammazzare un quattordicenne con tanta ferocia e determinazione? È quanto stanno cercando di scoprire gli agenti della squadra mobile partenopea, che per tutta la serata hanno provato a ritagliare un brandello di verità dalle parole di un altro minorenne, appena un anno più grande, che era con la vittima al momento dell’omicidio. Due ipotesi, per ora, sembrano prevalere sulle altre.
La prima: Sebastiano e il suo amico litigano con dei coetanei e, per risolvere la faccenda, danno appuntamento ai rivali in via Rossetti, un’arteria secondaria che costeggia la campagna e un gruppo di villette. Una volta lì, tuttavia, cadono in un agguato che non lascia scampo al piccolo boss. Oppure la rissa esplode proprio all’imbocco della stradina e prosegue, a suon di pallottole, per un centinaio di metri mentre il giovane guappo e il suo accolito tentano disperatamente di fuggire in sella a un motorino Honda SH, che però sbanda e fa cadere sull’asfalto i due adolescenti, rendendo Sebastiano facile preda dei suoi inseguitori.
La seconda: i ragazzi sono appostati ai margini di quel viottolo in attesa d’una preda da rapinare. Però beccano il tipo sbagliato, che non solo reagisce, ma insegue il quattordicenne sparando contro di lui almeno tre proiettili che vanno a vuoto, finché non lo raggiunge e lo fredda con l’ultimo colpo esploso a distanza ravvicinata.
Qualunque congettura, giusta o sbagliata che sia, spalanca la porta sul buio di una vita appena cominciata e già consumata dalla violenza. Sebastiano aveva in tasca una pistola giocattolo modificata per sparare davvero, non per scherzo. E con quest’arma, forse, aveva messo a segno un bel po’ di rapine: di sicuro quelle che gli erano costate le denunce raccolte nel suo fascicolo penale, ma probabilmente anche altre.
Spavaldo, pronto a regolare i conti impugnando un revolver, fin da bambino aveva respirato aria di camorra. Ovunque. A casa, tra gli amici, in paese. E quell’aria gli aveva impregnato i polmoni, avvelenato il cuore, trasformandolo in un piccolo boss a quattordici anni, un’età buona per affacciarsi alla vita e non per dirle addio. Suo padre è stato fra i primi ad accorrere sul luogo del delitto, anticipando perfino i poliziotti. Come abbia fatto a sapere subito la notizia è un altro mistero. Dinanzi al cadavere del figlio ha pianto, urlato, imprecato. Ma ormai era tardi. Troppo tardi.
ENZO D’ERRICO – CORSERA 11 MARZO 2005
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