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Da “sistema” a “fabbrica”: così gli Amato-Pagano gestiscono potere, stipendi e fedeltà

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La “fabbrica” del clan: così il sistema Amato-Pagano gestiva potere, stipendi e fedeltà

Non un’organizzazione criminale, ma una “fabbrica”. È questo il termine che ricorre nelle conversazioni intercettate e confluite nell’ordinanza, un’espressione che restituisce in modo plastico la struttura del clan Amato-Pagano, capace di trasformare il controllo del territorio in un vero e proprio sistema aziendale, fatto di ruoli, mansioni, gerarchie e “stipendi”.

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Dalle parole captate emerge una visione quasi industriale dell’organizzazione: chi lavora ha diritto alla mesata, chi non serve più viene cacciato, chi prova a chiedere spiegazioni rischia l’isolamento o peggio. La “fabbrica” non è solo un luogo fisico, ma il cuore economico e simbolico del clan, l’ingranaggio attraverso cui si distribuiscono soldi, potere e riconoscimento.

Nelle conversazioni tra Giulia Barra e Teresa Tabasco, moglie del detenuto Luigi Carriola, il termine ritorna come un dato acquisito, quasi naturale. La fabbrica è ciò a cui si appartiene, ciò che garantisce sopravvivenza e status. Restarne fuori significa perdere tutto: “senza mesata e senza niente”, come lamenta Barra, descrivendo una condizione che va oltre la difficoltà economica e diventa esclusione sociale all’interno del sistema criminale.

Il racconto si carica di amarezza quando Giulia Barra rivendica il ruolo storico del marito Arturo, sottolineando come quella “fabbrica” fosse stata costruita in decenni di lavoro e fedeltà: una vita intera spesa dentro l’organizzazione, improvvisamente azzerata da nuove decisioni e nuovi equilibri. La “fabbrica”, infatti, non è immutabile: cambia direzione, cambia gestione, cambia padrone.

Ed è proprio questo il punto che gli inquirenti evidenziano. Il clan viene descritto come un organismo economico che funziona secondo logiche aziendali, ma senza tutele, senza diritti, senza regole condivise. Chi comanda decide chi lavora, chi guadagna, chi resta e chi deve sparire dalle “zone nostre”.

L’uso del termine “fabbrica” non è casuale. È la rappresentazione linguistica di un potere che si percepisce come legittimo, organizzato, produttivo. Un lessico che normalizza la criminalità, la rende quotidiana, amministrabile, quasi ordinaria. Ma dietro quella parola, dietro quell’apparente ordine, resta la realtà di un controllo mafioso che soffoca il territorio e riduce le persone a ingranaggi sostituibili.

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Redazione Internapoli
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