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Foto intime delle mogli senza consenso su Fb, chiuso gruppo con 32mila iscritti

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Un gruppo Facebook con oltre trentamila iscritti. Un nome innocuo, “Mia moglie” con tanto di cuoricino rosso come emoj che nasconde invece uno dei fenomeni più disgustosi della violenza online. Migliaia di uomini, in gran parte italiani, pubblicano foto delle proprie compagne spesso intime e spesso senza consenso accompagnandole con la formula “vi presento mia moglie” e invitando altri uomini a commentare, desiderare, consumare con lo sguardo. Un grande banchetto di voyeurismo, dove il corpo delle donne diventa carne esposta al mercato del like.

Cos’è la violazione del consenso?

La condivisione di immagini intime senza consenso non è un gioco. È un reato. L’articolo 612-ter del Codice Penale parla chiaro: chi diffonde o condivide materiale privato senza autorizzazione rischia fino a sei anni di reclusione. Eppure, la sensazione è che queste norme vengano continuamente svuotate di forza, rese carta straccia davanti a un branco che, dietro lo schermo, pensa di essere invisibile e impunito.

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A rendere tutto più grave, il fatto che il gruppo non viva solo su Facebook ma anche su Telegram, piattaforma molto più difficile da monitorare. Una doppia esposizione che amplifica la violenza e la sua diffusione.

Su Telegram compaiono donne, compagne, mogli e anche persone fotografate su autobus, per strada. Alcune di loro mentre sono in procinto di allattare i bambini, altre mentre provano un costume, altre sono semplicemente sedute ad un tavolino del bar.

La Cultura dello stupro è quella la violenza travestita da gioco

Quello che accade dentro “Mia moglie” è lo specchio di un problema ben più grande: la cultura dello stupro. Un sistema sociale che riduce le donne a oggetti disponibili, prede da giudicare, consumare, commentare. I commenti che accompagnano le foto sono rituali collettivi di violenza verbale, fantasie di possesso, di dominio.
È così che lo stupro diventa cultura, quando l’abuso si traveste da normalità, quando l’atto di violenza si mimetizza in un linguaggio quotidiano e socialmente accettato quasi divertente.

Poliziotti, medici, avvocati, molti dei 30000 membri. La faccia nascosta dei “rispettabili”

A inquietare ancora di più è la presenza, tra gli iscritti al gruppo, di figure insospettabili. Poliziotti, militari, avvocati, medici. Professionisti che, in teoria, dovrebbero garantire sicurezza e giustizia, e che invece partecipano a un rito collettivo di violazione e disprezzo. Questo non è solo un dato di cronaca, è la fotografia di quanto la misoginia sia radicata, trasversale, diffusa a tutti i livelli della società.
Se un medico si diverte a condividere foto o semplicemente a commentarle può essere lo stesso che dopo qualche ora avrà accesso al corpo di una donna per visitarlo. Questo deve far riflettere su quanto il fenomeno sia grave.

Se una foto scattata nella complicità di una coppia, o perfino un’immagine rubata nella quotidianità, può finire esposta in un gruppo del genere, allora nessuna donna è davvero al sicuro. Non lo è la moglie, non lo è la compagna, non lo è la sorella. La violenza digitale cancella il confine tra pubblico e privato, trasformando la dimensione intima in materiale da consumo collettivo.

Ogni donna diventa potenziale bersaglio, ogni relazione può trasformarsi in un atto di tradimento silenzioso. È il senso di insicurezza permanente, quello che costringe le donne a sentirsi prede anche dentro le mura di casa.

Vogliamo dare un messaggio per tutte le donne

Questo articolo non parla solo a nome di chi lo scrive, ma di tutta la redazione di Internapoli.

Per le mogli, le compagne, le sorelle, le figlie, le amiche. È per chi è stata violata, tradita, esposta. È per chi ogni giorno lotta contro il peso del giudizio e della violenza.

Non siete sole. Non lo siete mai state. E non lo sarete mai.
Nessuno ha il diritto di ridurvi a oggetto, nessuno ha il diritto di trasformare la vostra intimità in carne da spettacolo. I vostri corpi, le vostre vite, le vostre scelte non appartengono a nessuno se non a voi stesse.

Con le nostre parole, con il nostro lavoro, con la nostra voce. Denunceremo, racconteremo, porteremo alla luce ogni volta che un branco tenterà di mascherare la violenza dietro l’anonimato o la scusa del “gioco”.

Perché il rispetto non è un favore. È un diritto inalienabile.
E noi continueremo a gridarlo, fino a quando nessuna donna dovrà più sentirsi sola, violata o proprietà di qualcun altro.

Siamo con voi. Sempre.

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