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Setola, la corte Europea: «Ergastolo ingiusto»

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La Corte di giustizia europea apre il «caso Setola». I giudici di Strasburgo vogliono approfondire il ricorso presentato qualche mese fa dal presunto stragista dei casalesi e hanno deciso di aprire un fascicolo, con tanto di numero di protocollo e con una intestazione che basterebbe da sola a far rabbrividire: il ricorso si chiama «Setola contro Italia» e sarà analizzato nei prossimi giorni dai giudici europei, per accertare se nei confronti dell’imputato siano state commesse irregolarità in sede di giudizio. Un «caso Italia», un «caso Setola» a Strasburgo. C’è un passaggio formale, dunque, il primo step di un ricorso presentato lo scorso aprile e che sembrava destinato a non essere neppure preso in considerazione. Tecnicamente invece qualcosa si è mosso: il ricorso è stato rubricato, assegnato a un numero di protocollo (21873/10) e sarà discusso a stretto giro. Non un passaggio scontato, a giudicare da quanto avviene in casi del genere. Di fronte a un’istanza di parte, la Corte europea ha infatti due possibilità: ritenere il ricorso ammissibile e dare seguito alle valutazioni nel merito; o ritenerlo del tutto inammissibile, quindi cestinare la richiesta. In questo caso, le lagnanze dell’ormai famigerato Giuseppe Setola contro la giustizia italiana sono state ritenute «non inammissibili». Valide in via di principio. Quanto basta comunque a far nascere una sorta di «processo al processo»: l’Europa è chiamata così a giudicare il modo in cui è stata condotta l’istruttoria imbastita dalla giustizia italiana a carico del presunto responsabile di ben diciotto omicidi. Ma cosa ha spinto la Corte europea ad accendere i riflettori sul presunto stragista? O meglio: di cosa si lamenta Setola nel suo ricorso a Strasburgo? Sul tavolo dei giudici ci sono ventisette pagine, il fitto ragionamento sviluppato dal penalista napoletano Salvatore Maria Lepre. In sintesi, Setola ritiene «aberrante» la condanna all’ergastolo diventata definitiva, per un omicidio consumato nel lontano 1995, su ordine del clan Bidognetti. Ritiene di aver subito un’ingiustizia, di essere vittima di pregiudizi, probabilmente maturati dopo le accuse che lo hanno inchiodato in cella come responsabile della primavera di sangue del 2008 (tra cui anche la strage degli africani a Castelvolturno). È così che Setola ha fatto appello ai diritti dell’uomo e del cittadino, ha sventolato i principi cardine delle costituzioni occidentali, chiedendo un processo giusto, privo di condizionamenti. Ma a cosa si riferisce Giuseppe Setola? Il caso è legato all’omicidio di un incensurato – Genovese Pagliuca – ucciso il 19 gennaio del 1995 a Teverola dal clan Bidognetti. Chiaro il ragionamento nella richiesta di revisione: ben sei pentiti sostengono che l’omicidio Pagliuca venne deciso da Aniello Bidognetti, ma anche che Giuseppe Setola non fosse presente al momento del delitto. Anzi, su questo punto la batteria di pentiti sembra concordare in pieno. Ed è qui che l’imputato batte i pugni: «Ogni persona – scrive – ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente», e «il ricorrente ritiene che la decisione finale adottata dalla Corte di Cassazione, violi questo dettato dell’articolo sei della convenzione europea dei diritti dell’Uomo». Più o meno questa la ricostruzione del delitto, invece: Aniello Bidognetti decide di uccidere Pagliuca, «reo» di aver minacciato di morte il nipote, ma anche di essere entrato nel clan avversario dei Picca. Sullo sfondo una relazione sentimentale tra il ragazzo e una donna, a sua volta legata alla ex compagna del boss Francesco Bidognetti. Torbidi casalesi. Fatto sta che dopo un primo ordine, è il boss Bisognetti a decidere che Setola non debba partecipare alle fasi esecutive dell’agguato. La sua auto può distaccarsi dal commando, può rientrare nelle fila amiche. Eppure, per i giudici napoletani (forti anche di un verdetto della Cassazione), sarebbe bastata l’adesione morale di Setola ad assecondare i diktat del boss per meritare l’ergastolo. Un ragionamento ritenuto «aberrante» da Setola, che ad aprile firma un ricorso ritenuto oggi non inammissibile.


Leandro Del Gaudio

Il Mattino il 28/08/2010

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«È una iniziativa legittima ma atipica servirà più di un anno per la decisione»

Italia nel mirino della Corte europea, specie per i casi di processi-tartaruga, di procedimenti tanto lunghi da sforare rispetto agli standard fissati dalla comunità europea. A ragionare sul ricorso alla Corte europea presentato da Giuseppe Setola, è il giudice Fausto Pocar, giurista di fama internazionale esperto in materia di diritto europeo. Magistrato milanese, da tempo giudice del Tribunale penale internazionale per i casi riguardanti la ex Jugoslavia, spiega al Mattino cosa avviene quando la Corte europea decide di aprire una pratica dopo il ricorso presentato da Setola. Giudice cosa accadrebbe se i giudici di Strasburgo accogliessero anche nel merito il ragionamento svolto dal difensore di Setola? «Se accogliessero anche nel merito il contenuto del ricorso, la giustizia italiana dovrebbe riorganizzarsi nel merito delle istanze sollevate dal ricorrente. Non conosco il contenuto del ricorso, non posso esprimermi sul caso di specie, ma nelle linee generali, quando c’è un accoglimento integrale dell’istanza, l’Italia deve adeguarsi nel merito del giudizio adottato». Come ritiene la decisione di Setola di ricorrere alla giustizia europea? È possibile definire aberrante una condanna all’ergastolo firmata dopo un processo che ha attraversato tutte le fasi di giudizio? «È una mossa quanto mai atipica». In che senso? «Basta considerare il contenuto dei ricorsi che arrivano dall’Italia». Di cosa parlano? Cosa chiedono alla giustizia europea le singole parti? «In genere si rifanno alla lunghezza dei processi, che è un problema spesso sollevato dalle parti. Questione che poi, se viene acclarata, è destinata a risolversi in sanzioni di natura pecuniaria. Più rari i casi in cui si chiede di entrare nel merito di una valutazione». Nel caso Setola la questione di fondo è una condanna all’ergastolo per un’ipotesi di concorso in omicidio. Setola si reputa innocente, forte del dettato dei pentiti, sostenendo di non aver partecipato all’omicidio in seguito a una repentina decisione del boss di riferimento. «Non conosco la questione dibattuta, ma in materia di concorso in omicidio sono stati già trattati casi dalle toghe della corte europea». Giudice quali sono i tempi medi per una pratica di questo tipo? «La prima fase riguarda l’ammissibilità del ricorso da un punto di vista formale. Poi, in una seconda fase dell’istruttoria, si entra nel merito del contenuto delle questioni sollevate dal ricorrente». Tra una fase e l’altra quanto tempo può passare? «In questi casi anche un anno, ammesso però che l’istruttoria vada fino in fondo, passando dalle questioni formali a quelle nel merito. Il tempo comunque non è una variante secondaria: la Corte ha un arretrato di settantamila ricorsi, nonostante gli sforzi dispiegati dai colleghi e nonostante il recente protocollo che sposta l’attenzione sui giudici unici e non solo sui collegi». La mossa di Setola può fare da apripista? «Dubito che sia un ricorso pilota. Lo ripeto: al momento il grosso delle istanze provenienti dall’Italia investono la questione della lunghezza dei processi».


Leandro Del Gaudio

Il Mattino il 28/08/2010


Due auto piene di killer: quella del capoclan cambiò strada

Una storia a tinte fosche, passioni distorte, scenario umano desolante. Come sempre avviene quando in ballo ci sono severi ordini impartiti da boss della camorra, ma anche sentimenti difficili da assorbire in schemi maschilisti tipici del cartello dei casalesi. La storia è più o meno questa, a seguire il ragionamento dei giudici che in Corte d’assise d’appello hanno confermato l’ergastolo a carico dei killer dei Bidognetti, Setola incluso: Aniello Bidognetti decide di uccidere Pagliuca, «reo» di aver attentato alla vita del nipote, ma anche di essere entrato nel clan avversario dei Picca. Sullo sfondo, c’è una passione omossessuale (come emerge dal resoconto fatto da sei pentiti) da parte della ex donna del boss Francesco Bidognetti verso una ragazza che Pagliuca aveva preso a frequentare da qualche tempo. C’è un doppio possibile movente, spiegano gli inquirenti: due ragioni per uccidere un incensurato, un ragazzo che aveva osato troppo nell’ottica di Bidognetti. Ed è stato proprio un pentito di famiglia, Domenico Bidognetti, a mettere la firma alla ricostruzione di moventi e responsabilità dell’omicidio di Genovese Pagliuca: il 19 gennaio del 1995 si muovono due automobili, due macchine occupate da killer e armi da guerra. Prima uno stop in casa della convivente del boss, poi la decisione finale: basta un’auto di killer per uccidere un incensurato, mentre – stando al racconto dei pentiti – l’altra auto può fare ritorno a casa. Fatto sta che nella seconda vettura, quella che non andò a stanare Pagliuca, c’era anche Setola, che non avrebbe partecipato così concretamente all’omicidio, pur avendo offerto la propria disponibilità, pur avendo obbedito da buon soldatino di Bidognetti agli ordini del clan. Ecco cosa si legge nell’esposto firmato dal presunto stragista: «La Suprema corte italiana, anche nei casi di istigazione, in cui ha riconosciuto la responsabilità del complice morale, lo ha fatto allorquando questi era, in ogni caso, presente sul luogo del commesso delitto, mentre nella vicenda del Setola, allorquando in maniera esponenziale le maglie della configurabilità del concorso morale e, quindi, arretrando in maniera assolutamente aberrante la soglia della punibilità, ha condannato all’ergastolo un soggetto che nemmeno era presente al momento dell’omicidio». Insomma, Setola si rivolge alle toghe europee, insistendo sul rispetto dei diritti umani: basta un «previo accordo» per accordare l’ergastolo a chi non era presente sul luogo dell’omicidio e non vantava neppure il ruolo di mandante? L’ultima parola passa ora alla Corte europea.


Leandro Del Gaudio

Il Mattino il 28/08/2010

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