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La ‘Terra dei fuochi’: l’inferno della camorra

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Un camion senza insegne ha lasciato tracce delle grosse ruote nella polvere e sui cespugli seguito da un’auto di grossa cilindrata che lo seguiva come scorta. Un andirivieni di camion e di auto che in mesi diventati anni hanno aperto un sentiero che non c’era: in un tratto al di là dei cespugli si intravede uno slargo di erba gialla e malata che contrasta con la luminosità della giornata. Giugliano, tra Napoli e il basso Casertano, è il centro della “terra dei fuochi” come è stata ribattezzata la vasta area tra Qualiano, Giugliano e Villaricca a 25 chilometri dal capoluogo partenopeo. Qui, tutte le notti, l’oscurità è interrotta dai roghi sinistri che si innalzano dalle campagne. Ogni notte, dalla Domitiana e dalle sue varianti, si possono avvistare le colonne di fumo nero che si innalzano dalle campagne.


Fumo che soffoca,
ceneri che entrano nei polmoni e nella terra. Fumo nero e denso da cumuli di copertoni mischiati a stracci, scarti di industria tessile, necessari per versare dentro agli pneumatici fuori uso chissà quale liquame industriale che senza l’effetto antidetonante della stoffa esploderebbe a contatto con la fiamma. È il flouf, liquame indistriale altamente inquinante che andrebbe smaltito come rifiuto speciale ma che, invece, viene interrato e bruciato. Con fumi come quelli che salgono a Cantariello, periferia nord di Napoli, dove in 10 anni sono state depositate 9mila tonnellate di rifiuti industriali illegali. Oggi qui la terra fuma per le reazioni chimiche di quei prodotti tossici.

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Pietro, un contadino del posto,
alza il braccio e senza parlare invita a seguire la direzione del suo indice. Lo sguardo si posa su alcuni grossi bidoni che i cespugli a malapena nascondono là dove dovrebbero crescere ortaggi e mele. «Monnezza pericolosa» spiega Pietro. «Monnezza che uccide» ripete. Sono fusti di chissà quale materiale tossico scaricati qui da chissà dove. «Quelli – dice Pietro – li hanno scaricati da poco. Sono ancora sani, ma il sole e la pioggia li consumano e la schifezza che si tengono chiusa dentro esce e avvelena e fa ammalare la terra che non dà più niente». E se non sono bidoni di sostanze sicuramente pericolose sono copertoni d’auto o altri rifiuti industriali.


È tutto così, per chilometri e chilometri
di una parte della fertile terra campana che è stata ribattezzata “triangolo della monnezza”.Una zona ampia che nel “piano regolatore” della camorra è stata assegnata al seppellimento dei rifiuti industriali. Divisa tra i clan dell’estrema propaggine della provincia di Napoli e la cosca dei casalesi. Qui la ricchezza ha cambiato fonte: una volta erano il vino falanghina, gli ortaggi, le primizie, il turismo. Ora viene dalla diossina, dai metalli pesanti, dai fenoli, dai pcb. Ricchezza solo per pochi perché agli altri lascia miseria e la malattia. Non solo la criminalità organizzata, anche Stato, Regione e Provincia hanno sacrificato questa zona alle continue emergenze rifiuti.


Discariche e siti di stoccaggio delle ecoballe,
in realtà spazzatura tal quale impacchettata e cellofanata, si susseguono. Il sito di Taverna del Re è enorme e conserva sette milioni di tonnellate di monnezza confezionata male, da cui fuoriesce percolato puzzolente o fumo da autocombustione. Ed ha tolto alla campagna ettari di terreno coltivato a mele annurca, albicocche e pesche.


Sul lago Patria, nel giuglianese,
dovrebbero piantare un cartello anzi una lapide: “Qui è stato scoperto il traffico illegale di rifiuti pericolosi”. Nel ’90 Mario Tamburrino era alla guida del suo camion: trasportava sostanze tossiche da scaricare nei pressi del lago. Le esalazioni di quegli stessi veleni che stava svuotando nella terra lo resero cieco. Dopo quell’incidente c’è stato un innalzamento dei controlli, ma non abbastanza. Con la saturazione del territorio la soluzione adottata al posto dell’interramento e dello sversamento dei rifiuti è quella di appiccare il fuoco alle sostanze da smaltire.. Una soluzione che, drammaticamente, si fa presente ognio volta che cala il sole.?


Valeria Chianese

Avvenire.it il 12/07/2012

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