Il mondo del traffico della droga messicano osservato da pochi centimetri di distanza. Laboratori di metanfetamine e di lavorazione dell’eroina. Passeggiate in mezzo ad infiniti campi di marijuana. Interi fortini militarizzati a protezione di gruppi di trafficanti. giovane boss irrequieto e dal grilletto facile. Una prostituta scampata alla vendetta mortale del cartello della droga. Questo è molto altro nelle puntate della mini serie Il Mondo dei Narcos. Ieri la prima puntata delle quattro inchieste: “Il Mercato dell’Innocenza”; “Lo Stato di Sinaloa”; “La guerra di Sinaloa”; “Viaggio oltre confine” divise in due serate.
L’autore dei documentari e protagonista in scena è il giornalista/documentarista David Beriain. Ad introdurre e concludere ogni puntata sarà Roberto Saviano. Proprio in apertura della seconda puntata – Lo stato di Sinaloa – è lo scrittore campano a raccontare la portata impressionante di questo fenomeno criminale. Sinaloa, nella zona centroccidentale del Messico è la “culla del narcotraffico”, spiega Saviano, là dove a fine ‘800 arrivarono migranti cinesi come manodopera e importarono l’oppio. Da ciò, nel corso dei decenni, si è sviluppata la coltivazione/produzione di eroina e marijuana e soprattutto dopo che i colombiani, re incontrastati del traffico di cocaina negli anni Ottanta, subirono una controffensiva statunitense nella rotta del trasporto caraibico, ecco che i messicani già attivi come corrieri e raffinatori si misero in proprio tenendosi il 35%-50% della merce proveniente dalla Colombia per poi rivenderla ad un altro prezzo altamente concorrenziale negli Stati Uniti.
Impressionante è poi la mimetizzazione di Beriain e del suo gruppo di lavoro nell’essere arrivati letteralmente dentro ai secchi in cui si raffinano eroina e metanfetamine, a ridosso di uomini armati fino ai denti, o di fronte ad un boss pazzo che punta loro la pistola minacciandoli di morte. “A raccontare queste storie non c’è un “io” David Beriain, ma un “noi”. E in questo “noi” al primo posto, e non è pubblicità gratuita, c’è il team di Discovery”, continua il corpulento documentarista spagnolo. “Per ognuno dei nostri racconti ci sono anni di lavoro come preparazione. Un anno l’abbiamo passato solo a Sinaloa. Tutto è fatto con estrema cura e seguendo tre regole. La prima: non mentiamo mai, non lavoriamo sotto copertura e non sottovalutiamo l’impatto che le storie potrebbero avere sui loro protagonisti. La seconda: gli intervistati sono pienamente consapevoli di ciò che stiamo facendo. Non abbiamo telecamere nascoste e chiediamo permesso e accesso per riprendere. Più che giornalismoinvestigativo io lo chiamerei un “inmersion journalism” (giornalismo d’immersione). Vogliamo che il nostro pubblico si senta benvenuto in quei mondi clandestini e off-limits. Terzo: stiamo vicini agli intervistati dal primo all’ultimo istante. A volte quando sei di fronte a una persona che uccide altre persone per vivere, più che essergli di fianco vorresti essere a un milione di miglia lontano da lui. Ma quando ti avvicini ti rendi conto che la distanza non esiste, che ci sono parti di te che puoi trovare in lui o in loro. E questo è davvero fottutamente spaventoso”.